Sui giovani puntateci voi

Sui giovani puntateci voi

In un mondo dove tutti vogliono cose giovani per giovani e di giovani, in cui millennial è una delle parole più violentate, se lei potesse si vendicherebbe togliendosi come minimo quell’allure anglo sassone e pure qualche decennio, credo, io punto sugli over Settanta. Parlo di comunicazione, s’intende.
Vado controcorrente, lo so, dato che quelli di codesta età non sono il target delle aziende. Pare che dunque non comprino caramelle, scarpe, biscotti, elettrodomestici, per esempio, e non abbiano uno smartphone.
Il mio babbo ha 73 anni, ha uno smartphone, dunque anche Instagram, e spende.
E non è il solo settantatreenne ad acquistare certe marche di liquori o di calzature perché li vede “su Internet”.

Detto questo, il punto è un altro: dal punto di vista della comunicazione, spesso l’età non coincide con il target. Vi faccio qualche esempio pratico, per afferrare meglio il mio concetto: nel 2014 Jacky O’Shaughnessy, 62 anni, posò per American Apparel; il messaggio era che la sensualità non ha età. Questa campagna fu fatta non tanto per vendere body ad un pubblico di over Sessanta, ma per trasmettere un messaggio forte, che difatti, ebbe un impatto rilevante su tutti i media.

Nel 2015 Céline chiese alla scrittrice americana Joan Didion di fare da testimonial per una collezione d’occhiali, e credetemi che il suo obbiettivo non era quello di appioppare costosi occhiali ad arzilli ottantenni, ma di smuovere qualcosa. Mentre le sorelle Hadid apparivano photoshoppate, non solo dal chirurgo, in qualsiasi pubblicità del globo, la Didion incarnava il minimalismo, l’emancipazione femminile, l’eleganza di Céline, e la meravigliosa normalità sempre più raramente rappresentata.

Avete capito adesso cosa intendevo dire? Io punto sulle persone di una certa età perché sono diverse nella loro splendida naturalezza, perché raccontano storie, perché sono sensibili, assolutamente interessate al foto-ritocco, perché sono spontanee.
Quando propongo progetti che non includano personaggi influenti, trentenni, “gente fresca” c’è quasi sempre qualche titubanza, perché noi “non” siamo mica un paese di vecchi. Quando invece i vecchi comunicano, lo sanno fare in maniera del tutto ovvia per loro.

Crocs invece mi ha sempre capita. Quando l’anno scorso per la campagna CAYA, Come As You Are, ovvero “sii te stesso”, proposi di intervistare mia zia, novantanove anni, e il barbiere di mio nonno, ottanta e passa, per chiedere loro se nel corso della propria vita erano sempre stati loro stessi o meno, accettarono. A mia grandissima sorpresa.
Il progetto è continuato quest’estate, spostandosi dalla Toscana all’Abruzzo, interpellando altri interessantissimi personaggi italiani con altrettante storie meravigliose.
Ve le scrivo qui, ma solo alcune, altre le trovate sulla mia pagina Instagram.

NONNA NINA

Entrare a casa della signora Nina è stato come entrare “a casa”, proprio quella della nonna, non a caso Mauro la chiama “nonna Nina”, anche se non è sua nonna. Quasi ottanta anni, un’energia che io sinceramente non ho, una parlantina assai spiccata – causa dialetto ho avuto bisogno a tratti della traduzione – e un segno particolare: da lei qualsiasi cibo, cucinato o meno, è sempre più buono. Ho provato per credere.

Nata e vissuta ad Ortona, nella vita ha sempre cucinato per la famiglia, prima i genitori, poi il marito e i figli, lavorato in campagna, e cucito. A proposito di marito, lei ha sempre avuto le idee molto ma molto chiare: ha avuto tanti fidanzati, ma lei voleva un uomo di Ortona, perché a Ortona si lavorava meno rispetto ad altri paesi vicino. E così fu: a vent’anni incontrò quello che divenne suo marito, la vide alla fermata dell’autobus, fu amore a prima vista (e a primo stop). Lavoravano insieme in campagna, a lei non piaceva studiare, era più pratica, infatti oltre a stare nei campi si cuciva i vestiti, ricavandoli da coperte o materiali riciclati, quello da sposa compreso. Non si sposterebbe mai da dove abita, anche se rimpiange i tempi in cui la gente si riuniva per andare a ballare a turno nelle case. C’era un vecchietto che suonava la fisarmonica, allora. Adesso invece qui non c’è più molta gente.
“Nina, cos’è per lei la felicità?”, le chiedo alla fine.
Guarda di sbieco la foto del marito, poi risponde. Prendo una pizzella ripiena di marmellata, vado accapo e annoto: “la felicità secondo nonna Nina è volersi bene”.

INNOCENZO

Innocenzo ha due laghi negli occhi del color del mare mosso. Ci accoglie all’Istituto Salesiano in una scena che avrebbe potuto immaginare Nanni Moretti: arriva lui in questa hall dai colori pastello, grande, troppo grande, e calda, troppo calda, con una camicia a maniche corte e pantaloni classici, con le braccia a tenere il ritmo dei passi quasi militari. Si commuove appena vede il papà di Mauro, che ci “scorta”, poi mi saluta. Innocenzo lavorava nella stessa azienda di Achille.

Ci porta al piano di sopra, ci fa conoscere il suo compagno di camera, le infermiere, e poi ci fa accomodare. Come se fosse “il capo dell’Istituto”.
Comincia così: “Sono nato a Torino di Sangro 87 anni fa, e sono contadino dalla nascita. In famiglia eravamo poveri di personale – pochi – quindi abbiamo dovuto cominciare a lavorare sin da subito, infatti sa come si dice? ‘meglio ricchi di gente che ricchi d’argento’”. Innocenzo è il re dei proverbi, ne ha uno per tutto.
Fino a 40 anni ha lavorato in campagna (l’orto vuole l’uomo morto”), poi è andato nelle Cantine di Ortona dove si è occupato della manutenzione.

“Con l’uva si fa il vino, la grappa, le bucce si mettono in mezzo ai mangimi, ci si fa l’olio, le tavolette per le stufe come combustile, lo sa che con l’uva ci si fanno un sacco di cose?”, mi dice. Nel 1994 Innocenzo ha raggiunto un suo piccolo sogno, ha comprato una casa e un piccolo appezzamento di terra. Negli ultimi quindici anni, dopo la morte della moglie, è venuto sempre a mangiare dai Salesiani, fino a quando l’anno scorso s’è preso una stanza.
“Sono il più giovane qui, faccio un po’ il giardiniere e aiuto anche gli altri anziani e le infermiere”, si asciuga i laghi che sono caduti sulle ginocchia con un fazzoletto azzurro.

Gli chiedo se ha dei rimpianti e lui mi risponde che avrebbe voluto studiare, ma che per prendere la patente, mica della macchina, ma del trattore, ha preso la quinta elementare alle scuole serali. Quando ci ha salutati ha fatto la cosa migliore che un uomo possa fare per me: s’è frugato nelle tasche e mi ha offerto due caramelle, che non erano né Gelo, né Rossana, ma alla frutta.

EMILIA

“Sono nata il 18 ottobre 1945”. Emilia si presenta con trucco, parrucco e manicure perfetti. Mi fa ripensare allo stereotipo che ho del contadino. Lei contadina lo è da una vita, fin da bambina quando andava nei campi con il babbo, poi “da grande” con il marito e ora con il figlio. “Io e Marco siamo come Cric e Crocs!”, ridiamo tutti. Freme a raccontarmi la storia con suo marito, e io ad ascoltarla. “Fu un colpo di fulmine, lo incontrai in un magazzino dove andavo a prendere le cassette, mi disse: ‘stia attenta a non cadere, ma se cade la riprendo’, io gli domandai allora se fosse davvero così forte, e da lì cominciammo a stuzzicarci”.
Da donna con le idee chiare qual era, all’inizio fece la sostenuta fino a che dopo cartoline e lettere inviatele, lui si presentò a casa del padre con una Fiat 1100D, e lei si convinse.


Stettero insieme cinquant’anni. Nel 1973 lui si comprò dei terreni, dopo aver chiesto ad Emilia di aiutarlo, e lei ovviamente accettò.
Da un anno ha con il figlio Marco l’“Azienda Agricola l’orto di Emilia”. “Io amo la campagna, amo stare qua, nella vita non ho rimpianti, mi spiace solo aver perso mio marito”.
“Se questa qui sta due giorni via dall’orto sta male, altro che!”, mi conferma Marco. Vitalità prorompente la signora Emilia, lei che comunque aveva una piega che avrebbe fatto invidia perfino ad Orietta Berti. 

LA TRADIZIONE DEI POMODORI

Sono sincera: Achille e Maria mi hanno spiegato sessanta volte e con molta accuratezza com’è che fanno i pomodori, ma c’è sempre qualche passaggio, forse più di qualche, che mi sfugge.
Ho capito che ci si alza il giorno prima per lavare tutti i pomodori e preparare l’occorrente, che il giorno dopo si fanno scottare, si spremono, poi si mettono nelle bottiglie e si fanno bollire.
Mi rimangono fuori dei passaggi tra le bucce e la pastorizzazione, ma me ne farò una ragione. Quello che mi ha piacevolmente stupita è che quando ho realizzato delle Stories con la famiglia di Mauro che tutta insieme “faceva i pomodori” mi sono arrivati dei bellissimi racconti di alcuni di voi che soprattutto da piccoli avevano la stessa tradizione.

“È una cosa che si tramanda, i nonni facevano anche la conserva, ora quella non si fa più, ma rimane sempre un momento per stare insieme”, mi dice Maria. A me è sembrato una sorta di Natale d’estate, dato che è un’occasione grazie alla quale tutta la famiglia si sposta nella casa di un parente, e si divide i compiti per fare qualcosa. Grandi e piccini inclusi. Una sorta di catena di montaggio in cui si finisce feriti grazie alle benedette armi della terra, i pomodori.
Maria mi racconta quando da piccola lei e le sorelle dovevano fare tutto a mano, perché non c’erano macchine elettriche, quindi gli ortaggi andavano infilati con un imbuto e pressati con una specie di cannuccia attraverso il collo delle bottiglie “fino a quando il nostro vicino di casa inventò un sistema più rapido con un tubo da giardino”), procedimento che richiedeva un sacco di tempo, e che come conservante veniva usato il principio dell’asprina, l’acido salicilico. Non c’è adolescente difficile che tenga, o bambino svogliato, fare i pomodori è un’istituzione attesa da tutti. Io che cerco sempre spiegazioni a tutto, trovo questa cosa misteriosamente incredibile.

MARIO

Chissà quante volte gli avranno detto: “Oh Mario, ma lo sai che somigli proprio a Capitan Findus te?” E anche se non glie l’avesse detto nessuno, ci potresti scommettere le palle che quel ragazzone lì, barba bianca e occhi con dentro la tempesta, sia un uomo di mare. Una trilogia d’eventi presagì il futuro: Mario è nato il 22 agosto del 1949 in via del Porto a Ortona – sua mamma a volte metteva i cartoni davanti alle finestre perché la luce del faro era troppo forte – suo nonno era un pescatore, mentre suo papà il proprietario di un peschereccio.
Alle Scuole Medie il babbo gli disse: “È ora d’imparare il mestiere”.
Da lì tutto cominciò. Partiva di notte con lui, e a forza di nodi imbastiti e mal di mare, alla fine s’iscrisse all’Istituto Nautico di Ortona. Dopo un’esperienza nella Marina Militare fu convocato da una società americana, e tra grosse petroliere e profumi d’Oriente divenne comandante. Viaggiò per trent’anni.


“Hai mai avuto paura di morire?”. Mi dice due volte, una delle quali quando incontrò una perturbazione artica nel Mare del Nord. Stette imbracato per sette giorni e sette notti davanti al timone, mangiando cibo in scatola e dormendo praticamente mai, con masse d’acqua pese come edifici che ricadevano sulla nave come schiaffi di un dio arrabbiato, e con la nave stessa che impennava per cercare di cavalcare onde impossibili.
Dopo tanti anni via dalla famiglia decise di accettare un incarico ben più tranquillo all’Istituto Nautico di Ortona; nel frattempo con la moglie comprò il bagno Dea Venere, dove oggi lui cucina e si occupa della manutenzione.

“Se vieni qui al mattino presto, alle 5, spesso mi vedi in riva a pensare. Quando scorgo delle navi penso sempre a dove vadano. Io amo l’incognita”.

Gli chiedo se sia felice, risponde di sì, se nella vita ha sempre fatto tutto quello che ha desiderato, allora lui mi sorride e mi ricorda di quando era un sessantottino e si presentava a scuola con il chopper e i capelli lunghi, domanda retorica la mia, e se gli manca qualcosa. “Sì, mi manca navigare. Vorrei comprare una barchetta. Secondo l’INPS ho circa dieci anni ancora da vivere, me li vorrei godere fantasticando ancora in mare. Per qui, eh”.

Con Crocs
Ph: Mauro Serra

 

 

Comments are closed.