Quella social democrazia che ci rende schiavi

Quella social democrazia che ci rende schiavi

La troppa democrazia sui social ci ha resi schiavi. Persino quando non si ha niente da dire, da scrivere, invece di dire nulla, spesso ci si giustifica affermando la volontà di non postare.
Vedi Facebook, strumento al quale molti, moltissimi, hanno dato pochi anni di vita, mentre io dico semplicemente che sarà “per grandi”. Su Facebook si può dire così tutto, ma proprio tutto, che alla fine non si può dire niente. Ti passa praticamente la voglia di dire la tua, su qualsiasi argomento, perché tanto verrai sempre attaccato. Che tu posti un tramonto (“che banalità”), o un link ad una notizia di politica (“credevo fossi intelligente, invece se voti quel partito sei chiaramente un deficiente”).
Quello che m’infastidisce moltissimo di Facebook è che non c’è un controllo ragionato: il social azzurro e bianco è quella terra di nessuno e tutti in cui Andrea Diprè ha avuto una pagina mostrando minorenni molestate e ragazze fatte di non so quale droga, mentre io sostengo una campagna a favore dell’uso del preservativo e non vengo autorizzata a sponsorizzarla perché contiene immagini scandalose. La foto di un preservativo. Chiuso. Disclaimer: Andrea Diprè ha ancora la sua pagina, ed è sempre ovviamente offensiva.

Insomma, se adesso si parla con le persone dell’argomento, nove su dieci ti diranno questo: “io su Facebook posto pochissimo”. È la verità.
E se tutti osservano chi scrive più contenuti?
Ci deve essere una ragione, no? Persino i selfie sono scemati notevolmente.

La ragione per cui posto meno è che ho meno stimoli, meno voglia, e poca volontà di sprecare energie a combattere per qualcosa o qualcuno per cui non dovrei/vorrei giustificarmi.
Se posto le foto del mio gatto mi diranno che è fantastico oppure che sono la solita gattara rompipalle, oppure vedrò a due minuti di distanza un post di un “amico di Facebook” che reciterà: “che palle quelli che postano foto dei loro gatti, manco fossero loro figli”. Senza taggarti ovviamente.
E poi c’è l’algoritmo. Devo postare se nessuno mi vede? Perché mica posto per me stessa.
Tutto ciò avviene con un’imbarazzante ipocrisia che preclude le false dichiarazioni di superiorità al social network: “tanto a me non ne frega nulla”.
Più o meno inconsapevolmente quando decidiamo di postare qualcosa pensiamo a tutto ciò.

Tanto c’è Instagram, il regno del fake per eccellenza. Ormai si posta solo lì, no? Sono spaventata a rispondere affermativamente.
Tre ore per postare, post-produzione compresa, una foto. Tutta una vita passata sotto l’egida pressione dei cuori, sempre troppo pochi, ricevuti. Mai abbastanza anche perché l’algoritmo non fa altro che penalizzarci, e quindi sponsorizziamo. Sponsorizziamo ma non siamo ugualmente soddisfatti, allora paghiamo di più. Siamo schiavi di Mark.
Per non parlare degli hashtag: ognuno ha la sua versione sui migliori da mettere.
Chi se ne fotte di tutto ciò, risparmia energie e patimenti, passando un trattore sulla propria coscienza facendo la cosa più logica da fare: comprare like, fan, cuori, visualizzazioni, facendo così credere a tutti, in primis a se stessi, di essere quello che non è.
C’è così tanto Instagram, che perfino Condè Nast ha creato una “piattaforma editoriale solo social”, dedicata alle donne millennials (quindi anche a me), e curata da ragazze comprese tra i 23 e i 25 anni. Salutate tutte con la manina Freeda.
Tuttavia, benché l’espressione “social-only” mi faccia un pochino paura, aspetto a giudicare.

E Twitter? Nessuno è schiavo di Twitter, di quello se ne può fare anche a meno. Forse perché non è di Zuckerberg.

A questo punto sono sicura arrivi lo splendido della situazione ad affermare fiero e orgoglioso che nessuno in realtà ci lega ai social network, siamo liberi di liberarcene, siamo indipendenti, no?
No. Sarebbe come vivere in una caverna in città, come stare senza corrente elettrica, come non avere il cellulare, sarebbe psicologicamente molto ma molto difficile.

Ah, come ho, abbiamo, bisogno di calore umano ora, mai così tanto prima d’ora.

 

 

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