Banzai!

Banzai!

Mettiamola così: Lucia si fa prendere a schiaffi e impara a darli (guardate subito il suo ultimo video per Pink Different su Fox Life), io scalo scatoloni, causa trasloco, come fossero pareti da arrampicata per trovare quello giusto dove ho messo quel maglione, (perché voglio proprio quel maglione, gli altri non sono all’altezza).
E mi viene in mente Mai Dire Banzai.
Noi millenials dovremmo ricordarlo tutti, e sondando un po’ in giro, persino le generazioni più giovani ne sanno qualcosa, anche se loro lo chiamano col suo nome giapponese appropriato Takeshi’s Castle.
E lo amano tutti. A dire il vero l’ancora giovane Giallapa’s in Mai dire Banzai aveva unito Takeshi’s Castle e Gaman (un programma analogo sempre giapponese), ma il succo era lo stesso: concorrenti che si sfidavo in prove di resistenza e sopportazione, percorsi ardui ed improbabili, nel quale pochi arrivavano alla fine.
Non credo ci fosse un gran gusto nello stare in gabbia con scimmie affamate e banane legate a gambe, braccia, pancia, insomma un po’ ovunque. O nel roteare aggrappati a dei tubi disposti a pelo d’acqua, per cui ad ogni giro veniva offerta una bella bevuta di non so quale canale.

I giochi all’apparenza erano molto semplici, un po’ come il nostro 1,2,3 Stella, ma giusto con qualche piccola accortezza per aumentare la difficoltà. Ad esempio, si partiva dalla cima di una collina per arrivare ai suoi piedi, quindi una bella discesa, pavimentata da uno spesso strato spugnoso e molto morbido dove l’equilibrio di chiunque traballerebbe. Sarebbe stato ancora troppo facile. Per destabilizzare l’equilibrio i concorrenti venivano vestiti da giganti Daruma in gommapiuma, praticamente delle mega palle rosse che dovevano stare ben in equilibrio onde evitare di rotolare giù per il pendio.  Dai sù, un po’ la metafora della vita, offerta anche al contrario con il gioco delle scale insaponate (da salire ovviamente). O anche con quello dell’attraversamento sul ponte sospeso e traballante, mentre si cercava di prendere al volo la palla d’oro sparata dal Generale Lee, che andava portata in salvo, mentre dei brutti ceffi ne tiravano altre con lo scopo di abbattere il concorrente. Cavolo, me ne stanno venendo in mente tantissimi.

La cosa che mi piaceva da piccina era ritrovare i simboli giapponesi nei giochi stessi. I Daruma come travestimenti, le barchette fatte a forma di ciotola di riso e i lottatori di sumo come antagonisti nei percorsi. Incredibilmente, però, riuscivano a farcire il gioco e il programma di elementi tradizionali e moderni. Più di una volta ho visto i concorrenti vestiti da Power Ranger o da rugbisti americani, e non ho mai capito se fossero coscienti del fatto che Il Generale Lee, l’arbitro dei giochi, fosse il nome della macchina di Bo e Luke di Hazzard. Insomma un potpourri di culture.

C’era un gioco che sembrava Super Mario Bros versione reality: un percorso ripreso in sezione, cioè lateralmente, per cui si aveva esattamente la stessa prospettiva del videogame, con prove analoghe di corsa, salti e palle rotanti da schivare.

La cosa che divertiva molto credo fosse anche lo spirito goliardico con cui venivano affrontate le sfide. Certo, molti erano lì per vincere, ma tanti giusto per partecipare, farsi due risate e finire in acqua. Anche perché la maggioranza concorreva con dei look veramente improbabili, alcuni dei quali sono convinta aumentassero la difficoltà delle prove. Poi finire nel fango con abito di chiffon e girocollo di perle non credo fosse il massimo.
La mia tenuta preferita era quelle delle ragazze che si presentavano come Mimì Ayuara: maglietta bianca, shorts/mutanda, calzettone bianco di spugna e ginocchiere. Un look comodo, pratico e tattico. Perché per affacciarsi da una finta finestra e rimanere aggrappati grazie al velcro che si aveva sul davanti (lo fornivano loro con una tuta) credo non fosse stato piacevole, come anche cadere da una pila instabile di scatoloni. Il loro vantaggio (se non si rimaneva attaccati grazie al velcro), stava nel cadere in uno stagno putrido, poter godere quindi di fanghi gratis e venir ripuliti nell’immediato da un idrante, che sicuramente è lì per quello, non per umiliarli per non aver passato il turno. Crediamoci.

Quindi, direi che, esaminata la situazione, mi sento più che preparata. Adesso mi manca solo di trovare spazio nell’agenda di Lucia per inserire la proposta!

di Greta Rani

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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