La cabina telefonica: lo strumento della libertà per le conversazioni “proibite”

La cabina telefonica: lo strumento della libertà per le conversazioni “proibite”


Andavo alla cabina del telefono sotto i Portici per chiamare il Brando. Me lo ricordo come se fosse ora. Era il periodo delle schede telefoniche da 10.000 lire, una volta finite le collezionavamo; adesso mi piacerebbe sapere, socialmente parlando, come e perché quei pezzi di plastica rettangolari fossero diventati un feticcio tale.
Ci chiamavo anche certe amichette del mare con cui non potevo parlare a casa perché dovevamo discorrere di “uomini”. Ci facevo la fila davanti perché ero dispostissima e felicissima di aspettare di sentire chiunque fosse “proibito” (dalla mia mente) a casa mia. Col gelo e con il solleone.
Quando arrivarono i cellulari, anche se erano cari, piano piano tutti si dimenticarono delle cabine telefoniche; tutti tranne gli stranieri.
Ora non ci sono più, o se ci sono c’è scritto sopra: “questa cabina verrà rimossa il giorno XX”, dove il giorno XX è sempre passato da anni. C’è qualcuno che si dimentica perfino di ricordare.
Oppure sono lì a farsi aggredire da muschi, deturpatori o da nessuno.

Questa cabina l’ho trovata in un piccolo bar-alimentari in un paesino che si chiama Anciolina, al cui ingresso c’è un cartello stradale con scritto: “Attenzione, qui vengono allevati bambini all’aperto”, e dove ovunque c’è scritto o inciso “Anciolina”. Ovunque. 

Quando sono entrata nessuno mi ha salutata, c’era un gruppo di signori a banchettare con salumi, vino e quell’atmosfera goliardica di chi si conosce da anni.
Ho aspettato un po’ affinché qualcuno incrociasse lo sguardo per chiedere un caffè macchiato, ma dato che l’attesa s’era fatta ridicola ho detto, in generale, a qualcuno: “Un caffè macchiato per favore”.
La signora davanti a me ha detto “sì” continuando a non guardarmi, per poi riferire all’altra signora, forse sua sorella, di fare un caffè.
“Macchiato”, ho aggiunto.
“Macchiato”, ha detto la sorella alla prima signora.


A togliermi il fastidio di dosso è stato Leonardo, avvertendomi della meraviglia che c’era dietro a me.
Mi sono dimenticata il caffè e mi sono fiondata da lei.

“Era una cabina da interni, fa parte dell’arredamento, non ci faccio nemmeno più caso, e comunque funziona”, mi ha detto la signora-sorella del bar, che finalmente mi considerava.
Una splendida cabina vicino ad un vecchio mobile di legno con dei cassetti trasparenti e dentro confezioni di pasta, e un piano di formica con sopra latte e altri generi alimentari poco assortiti.
È stato un po’ come vedere un Orso Polare ai Caraibi: strano e bello allo stesso tempo.

“Sono due euro”, mi dice la signora-sorella.
“Ma ho preso caffè e vino”, replico.
“Lo so, due euro”.

Certe volte, alla fine, è fantastico tornare anche a quella che è la realtà.

“Leo, adesso andiamo alla Trappola?”

 

Comments are closed.