Ikaria: l’isola dove non arrivi mai a destinazione

Ikaria: l’isola dove non arrivi mai a destinazione

Ikaria non è un’isola facile, ti mette alla prova come gli dei facevano o tra loro o con gli umani.

Se ce la fai sei ammesso nell’Olimpo, nettare e ambrosia all you can eat, sennò o vieni punito, o semplicemente escluso. Ovviamente le prove stesse sono punizioni, altrimenti è troppo facile.

I divini rubano i comandi perfino a Google Maps, facendoti stare in macchina ore e ore, passare per strade sterrate e pure scoscese, senza quasi mai farti giungere alla meta. Mannaggia a loro.

Quando torni indietro poi si palesano sempre le beffe. Succede così che il cancello che ti aveva bloccato il passaggio e che tu non avevi osato aprire per arrivare a destinazione in realtà serviva solo per le capre, e che il sentiero lungo e periglioso dettato da Google Maps era una strada remota alternativa ad una comodissima via asfaltata. Ma tu li conosci gli dei, si divertono a fare il solletico mentre dormi, e quando ti svegli scappano senza farsi vedere.

E allora perché dovresti andare ad Ikaria? Non dovresti infatti, perché potresti rimanerne delusa. C’è quel niente che è così pieno da essere tutto, che tuttavia è comprensibilmente invisibile a chi non ha lo spirito direzionato verso un certo punto cardinale. Non vai nell’isola di Icaro per una vacanza, ma per una faticosa esperienza.
Quanti sono pronti a “sprecare” tempo in macchina per non arrivare mai a destinazione? Quanti sono pronti a sorridere di questo, non imprecando quegli dei che hanno voluto ciò? Quanti leggono una morale della favola nei centimetri di segmento che stanno tra l’inizio del viaggio e la fine non scelta?

Una cosa è certa: volevo andare in quest’isola greca ma così vicina alla Turchia dal 2015. Sapevo tutto: come arrivare – un po’ complicato – i collegamenti tra le altre isole, e dove dormire. Ma era sempre successo qualcosa, ogni anno, per non farmi partire.
Eppure la desideravo così tanto, nonostante online ci sia così poco: “Ikaria l’isola dei vecchietti e dei surfisti”, questo dice il web.
I greci, quasi gli unici che la frequentano, dicono anche che negli anni Settanta era frequentata da comunità hippy. Ma in generale non parlano molto dell’isola, non ti dicono dove andare o cosa fare, non per cattiveria, ma perché è e deve rimanere un mistero. Se la vuoi conoscere devi farlo tu sola, rischiare di cadere, ma anche di incappare in luoghi magici abitati solo da animali dentro i quali si nascondono sicuro le anime di creature sovrannaturali.

Nel secondo tentativo di arrivare al faro Kavos Papas, all’estremità meridionale dell’isola, perché il primo ovviamente non è andato a buon fine, mi sono trovata a dover percorrere un sentiero a piedi il cui inzio era già un blocco, un freddo invito a non entrare: un cancello che però ho aperto, per scoprire dopo dei sassi che formavano delle recinzioni, capanne e caverne, con resti di frigoriferi attorno, catene e strutture che mi hanno fatto pensare ad un insediamento hippy. Chi lo sa.
Andando avanti sono incappata in un cubo di mattoni con davanti una macchina con delle pietre sul cofano, poi un vecchio telefono con i fili e un cane nero sul piccolo cortile davanti. È uscita una signora coi capelli bruciati che mi ha guardata senza dirmi nulla. Procedendo nel cammino ho scoperto che al faro non si poteva arrivare per la strada impraticabile. Chissà le risate che si è fatta quella donna che tutto sapeva ma mi ha fatto scarpinare comunque sotto il sole cocente in discesa e in salita.
Ecco, quella è stata l’ennesima prova, che ho superato nonostante non sia mai arrivata al faro.

Non so se chiamare “i nuovi hippy” o i “veri liberi” i personaggi che ho incontrato proseguendo dopo il felice fallimento del faro, verso Karkinagri, un villaggio di pescatori. So solo che mi sono trovata – naturalmente non avevo scelto di essere lì – con un’allegra combriccola di vecchietti, c’è chi andava e chi veniva, tutti si salutavano come se non si vedessero da anni ma si conoscessero da secoli. Una manciata di tipetti dal sorriso instancabile e dallo stomaco infinito, che ha divorato tutto il ristorante raccontandosi storie semplici e incredibili.
Ho ordinato della vlita, un’ erba della famiglia delle amarantaceae, del formaggio di capra con il miele, un frappè, e ho guardato ammirata quei fili di ϕιλία che si annodavano e snodavano sopra le teste di ciascun avventore. Ho provato a metterci una mano, ho sorriso per come mi hanno amorevolmente esclusa. Come gli anziani alla balera di Ponte Buriano.

Gli anziani a Ikaria sorridono tanto, hanno degli occhi che nascondono un segreto che non possono rivelare ma lo sai che c’è, e ha a che fare con la luce.
Quella luce l’ho sentita a Gialiskari, un luogo di passaggio, di permanenza e di preghiera allo stesso tempo, dove non puoi non volere restare e dove capiti per una ragione precisa: aver superato tutte le prove più difficili, e assaggiare l’aria del Paradiso.
Lì si percepisce di essere nel posto giusto al momento giusto, perché è giusto: senza vergogna, malizia, c’è solo la voglia di stare, di raccontare attraverso l’amore, le parole e anche il silenzio.
Ti senti inevitabilmente intrappolata in un’armonia diversa, ultra terrena, incomprensibile ma accogliente, che ti atterra e ti calma. Sei lì davanti ad un’umanità eletta che si trova a fare il bagno come se fosse un momento necessario di purificazione, sull’acqua alta come se fosse bassissima discorrendo del più e del meno, a insegnare una modalità di felicità senza importela. Quella calma irreale lì io non l’ho mai vista da nessun’altra parte.
Ed io non ho visto le persone nuotare, ma fluttuare. Forse sono entrata in un’altra dimensione.

A Ikaria ci sono diverse dimensioni in realtà. Ce n’è una ad esempio in cui il tempo è relativo, perché ci sono sempre persone a banchettare, e quando dico “sempre” intendo davvero sempre.
Il perimetro del villaggio di Xristos è delimitato da diverse porte ai cui lati ci sono incisi dei galli. Conta 300 anime ma ne ha molte di più. E mentre a Gialiskari espii i peccati e vieni premiato per la tua rinnovata purezza, lì ne parli, ne discuti, ti confronti.
Il paese è costituito quasi essenzialmente da tavoli di bar e ristoranti – c’è perfino una cooperativa femminile che cucina dolci che farebbero ingolosire chiunque – dove si siedono vecchietti che cambiano tavolo per non fare torto a nessun locale, giovani, e turisti che vogliono mangiare alle 2 di notte, in un brulicare continuo e incessante di voci.
È stato lì che ho festeggiato il mio 37esimo compleanno, dopo essermi persa in una strada secondaria, ovvio.

Pure al castello bizantino di Koskina, in cima ad una montagna, ci sono arrivata per una strada davvero ostica, sia per inesperte alla guida e non (non guidavo io, sarei finita nel dirupo in poco tempo), anche se ovviamente sarebbe stato raggiungibile da una strada più facile.

Naturalmente è stato impossibile arrivare fino in cima per il percorso non fattibile a piedi, ma come sempre qualcosa è successo: le capre mi guardavano dal castello, lo dominavano, le montagne mi accerchiavano, le pietre mi impedivano di camminare. Quella è stata una palese richiesta di rispetto, che non potevo non assecondare.
Così mi sono seduta ad osservare chi con le unghie, i pugni pronti a combattere, e gli occhi all’ingiù della pietà mi aveva chiesto distanza. Paradossalmente sono molto vicina al concetto di distanza, e questa sensazione è stata avvertita, tanto che mi sono stati regalati un vento dolcissimo, un’aria così pura e densa che avrei potuto tagliarla e mettermene una fetta in tasca, ma non l’ho fatto, e una vista ricca di avvenimenti che succedevano mentre vigeva il nulla.

Il vuoto che riempie è una costante dell’isola.

Se vai al Monastero di Osias Theoktisti, nel nord dell’isola, ti senti come in una bolla di vetro senza pesci, ma piena di particelle d’acqua.
Risale circa al 1600 e consta di diverse strutture: innanzitutto c’è una chiesetta affrescata con pitture cretesi, su cui ti focalizzi solo sugli aspetti severi – dita puntate, sangue, cuori – piccola ma ricca di energia.
Ci sono pochi oggetti, ma l’impressione è che siano tantissimi.
Poi c’è la cappella di Theoskepasti, costruita su una caverna, così bassa che pare dirti che lì devi per forza inginocchiarti dinnanzi a chi è più “forte” di te.
Il monastero ha inoltre 15 spazi adibiti a luoghi di ospitalità ma anche ausiliari, tra cui un caotico e affascinante bar dove c’è una signora con la faccia stanca e profonda che cucina con le sue mani pieni di dramma e amore. Lo stesso amore puro che ho trovato nel bambino che mi ha portato un cucchiaino di marmellata come dessert dopo aver messo in crisi la zia cuoca che non aveva niente di dolce da darmi. Non ho mai mangiato un “dolce al cucchiaio” così buono. Lì ero al ristorante Mantouvala nel villaggio di Karavostamo, l’unico consigliato dalla signora che gestiva la struttura dove soggiornavo e che consiglio vivamente, Kerame Studios & Apartments. L’unico che sono riuscita a strappargli.

Dicevo, nel Monastero è successa una cosa che ha confermato io fossi in un posto dove mi sentivo perfettamente parte integrante. Un signore si è avvicinato ad Andrea chiedendo se fossi una fotografa e se avessi potuto fotografare Melissa, una cantante di Copenaghen lì seduta con i suoi due figli. Andrea è venuto a riferirmi tutto e, io con la mia poca autostima, mi sono allora offerta di fare delle foto nonostante non mi sentissi all’altezza. E da lì è nata la ragione per cui mi trovassi in quel luogo: ho chiesto a Melissa di ballare, di sentirsi libera, cominciando a sentire un filo che mi legava a lei, proprio quello che avevo visto sopra le teste dei signori a Karkinagri.
Ho trovato un’anima affine, una persona che mi pareva conoscere da sempre. Ci siamo abbracciate e commosse. L’ho rivista in aeroporto e mi ha portato due regali: una calamita di Ikaria, che ho messo sul frigo, e un burrocacao. Tra i più bei regali ricevuti. Ah, Melissa è bravissima, ascoltatela.

Insomma, non sono stata mai in spiaggia, non amo stare al sole, ma ho fatto surf con la Ikaria Surf school, e mi sono goduta un frappè davanti al mare prima di ripartire vicino all’aeroporto, indovinando le altre isole che avevo davanti.

Sono infinitamente grata a quest’isola, è come un saganaki bello fritto da digerire, e a chi mi ha fatto questa splendida sorpresa di farmi andare lì. D’altra parte non è un caso abbia aspettato tutti questi anni per il momento giusto a Ikaria, l’isola delle attese e delle rotte incomplete. Il mometo giusto era con la persona giusta.


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