Là dove Dante ci scrive Inferno e Paradiso e le teste son bagnate

Là dove Dante ci scrive Inferno e Paradiso e le teste son bagnate

 

Il momento giusto. Sono venuta qui dopo una storia finita, da sola per un incrocio di circostanze non volute, a provare una cosa che avrei voluto provare da tempo ma avevo paura di essere giudicata, il surf. Cinque anni fa mi trovai con la testa sempre bagnata, le nuvole in perenne crisi di nervi, l’odore di cacca di mucca, e delle spiagge su cui Dante c’avrebbe scritto l’Inferno e il Paradiso. Il Purgatorio no. Io mi limitavo a imbastirci trame che avevano sempre un lieto fine e qualche volta del dramma nel mezzo. Uscivo presto con la muta già fastidiosamente umida perché qua il sole o è timido o è in vacanza, e rincasavo con il cielo o rosa o grigio, con delle pellicole in testa girate o sulla sabbia o tra un granello di sale e l’altro. Un giorno, un ciak.

Me lo ricordo ancora: i costumi non si asciugavano manco a morire, la mattina la spiaggia era il parco giochi dei cani, e la sera per uscire ci voleva la felpa per scacciare la pelle d’oca. Non ero preparata. Ero sempre e solo stata in quei posti di vacanza “standard”, dove non doveva piovere mai e dovevo stare in costume fino a che finalmente non avevo deciso che mi ero davvero rotta le scatole. Magari accontentandomi di amiche impossibili che capivo lì non potere più essere tali. Purtroppo quel momento “giusto” era sempre dopo il tramonto, perché rappresentava una delle ore migliori, ovvero la dodicesima ferma su un lettino. Ero sempre stata in uno di quei posti in cui la spiaggia era un lavoro. Sapevo che mi garbava poco prendere il sole, ma non l’avevo mai ammesso per non fare l’asociale.

Fino a “quel” momento giusto, che fu solo ed esclusivamente mio. Non decisi di innamorarmi di tutto ciò che poteva sembrare ostico. Caddi preda dell’ostico e basta, del controcorrente. Complici la melanconia cronica del cielo e quella lentezza che non ti pesa affatto, anzi ti rende leggera leggera. “Questo è il mio posto”, dissi un giorno dalla vetta di quei gradini per scendere in quella distesa infinita di granelli lisci e setosi. Dove vorrei camminare all’infinito, fantasticare su elementi umani e naturali, stare in mare a prendere le mie onde basse, lasciare orme che spariscono subito e addormentarmi con Nettuno che mi sussurra dolcemente fino ad accompagnarmi da Morfeo.

Qui sono scappata, mi sono rifugiata, persa e poi ritrovata. Qui ho portato le persone che amo, ce le porto. Qui è dove il mio cuore respira e la ia mentre crea non sul caos, ma sulla calma. Un metodo diverso dal mio solito, dove le idee mi nascono come pop-up pubblicitari dal marasma quotidiano. Qui continuo a guardare case sperando di vincere alla Lotteria e vivere una vita un po’ cantabrica e un po’ milanese. Sognare è gratis, sperare anche, fare accadere no, ma a volte il prezzo della felicità vale l’assegno.

Questo è un autoscatto fatto male perché era appena passato l’unico cristiano nel cammino da Loredo a Langre, e mi sono distratta, ma serve per contestualizzare. In questi giorni mi sono trovata da sola, con quell’amica schiva che se però approfondisci poi è un casino liberarsene. Con la mia amica, la solitudine, siamo andate a fare una passeggiata lunghetta, 20Km circa, in cui non abbiamo fatto altro che raccontarci storie. Sui gabbiani prima di tutto. Chi sono e da dove vengono? Dato che non ho voluto googolare me lo sono immaginato. Sui campi di granoturco che sbracciandosi verso di me, spinti dal vento, e prima di tuffarsi in mare, ignari della paura – beati loro – mi hanno salutata molto educatamente. Per questo ho risposto più volte “grazie” a voce alta. Così come ho chiacchierato con le farfalle e persino i ragnetti.

Mi sono raccontata storie sulla sovrapposizione differente della natura, che m’è sembrata la trasposizione non alimentare della Viennetta per niente algida. Sui luoghi nascosti, dove ti spogli o dei vestiti o delle sovrastrutture per essere quello che sei, e soprattutto libera. Sulla solitudine, il cui appuntamento fisso dovrebbe essere necessario, sull’erba suonata dal vento e toccata da mani che toccherebbero allo stesso modo il velluto. Capito come? Sul mio entusiasmo costante, il medesimo di quello d’una bambina quando la porti non tanto al mare, ma a fare il bagno un’ora e mezzo dopo pranzo, e non tre.

Ho esplorato in solitudine; una solitudine “moderna”. A 18 anni quando viaggiavo da sola facevo foto analogiche, scrivevo nel diario e poi condividevo con le amiche; adesso, 2019, cambia il mezzo. No, non viaggio sola come una di “clausura”; quando non ho compagni racconto nel mio diario virtuale, questo, perché comunicare per me è spontaneo, una meravigliosa necessità, e forse perché voglio che la bellezza salvi un po’ il mondo.
I giorni successivi ho esplorato in compagnia, birre, diluvi e chiacchiere che non finirebbero mai. Lì la bellezza ha salvato me, e l’ho condivisa sul mio diario “reale”, quello che fa “tum tum, tum tum…”.

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