Voi fate quello che vi pare che io racconto storie. Con i miei 15K. E basta.

Voi fate quello che vi pare che io racconto storie. Con i miei 15K. E basta.

Questo post non riceverà tutta l’apparente standing ovation dell’altro mio famoso post, grazie al quale molti mi hanno conosciuta. 
“Ah, ma te sei quella che ha sputtanato tutti?”. 
Io sono quella che dichiarò il suo fallimento professionale per “colpa” della sua etica; ne ho una bella salda io.
Già, passai proprio un brutto periodo, non volevo più continuare a lavorare in questo mondo di finzione e apparenza, dove alla fine quella che ci guadagnava due pacche sulle spalle (“sei brava Lucia”), e una presa di culo (“brava sì, ma paghiamo l’altra”) era proprio la sottoscritta. 
“La situazione cambierà – alcuni mi tranquillizzavano – non può andare avanti così, tutti sanno che è tutto finto, che tutti comprano fan e sono disonesti”.
Sono passati un po’ di mesi, e a questo punto voglio condividere con voi lo sviluppo dei miei pensieri.
Non nascondo che abbia fatto su me stessa un grandissimo lavoro: continuavo a chiedermi “vado avanti da perdente o esco da vincente? Sono una sfigata o un’eroina? Ho fatto bene a dire la verità?”. Diciamo che il mio cervello non s’è annoiato nei mesi precedenti.
Chiamatela pure crisi.
Grazie a dio però ho un dono, la disciplina, lo sport in questo mi aiuta moltissimo, quindi a inizio anno ho cominciato a farne un uso ancora più massiccio.

A gennaio mi sono imposta questo mantra: “il 2018 per me sarà l’anno dello zen”. E così è stato.
È dovuta andare così perché dopo quel famoso post invece di sentirmi liberata da un fardello, mi sono sentita una cretina: le account/PR delle agenzie che accusavo di incompetenza e omertà, ovvero di pagare fantomatiche influencer dai dodici milioni di fan finti (ovviamente) mi facevano “pat pat” sulle spalle dicendomi quanto fossi stata coraggiosa per poi cancellarmi dalle loro mailing list, ho ricevuto tantissime mail da ragazze che mi hanno fatto piangere di gioia, ho rilasciato interviste, sono cresciuta un po’ a livello numerico su Instagram, ma era come mi mancasse un pezzo. Tutto bellissimo, ma io rimanevo quell’idealista coraggiosa che proprio su Instagram continuava a vedere gente scorretta andare avanti.
Intanto mi sentivo dire che quel marchio non mi avrebbe mai scelta perché ero troppo “rumorosa”, che se non avessi comprato non sarei andata da nessuna parte, e vedevo che a quei summit di super esperti digital i relatori scelti erano proprio quelli che s’erano comprati praticamente la Cina in termini di fan (“No Lucia, se chiamassimo te, faresti troppo casino”).
Zen.
“O smetto o vado avanti”. E se vado avanti devo continuare a fare quello che faccio; credo nella connessione di certe frequenze, con le mie si connetteranno quelle che avrei voluto attrarre”.
Sono così andata avanti a raccontare le mie storie, a credere nel cervello più che nelle tette, e anche in me stessa, e le bellissime connessioni sono arrivate. Con quindicimila fan all’attivo. “E basta”. Alcune delle quali, a volte, fermano per strada me o Leonardo, facendomi sentire fiera di quello che faccio. Ripeto, con quindicimila fan.
Molte di queste connessioni-collaborazioni con marchi meravigliosi mi hanno fatto capire che sì, qualcosa è cambiato, e che magari non diventerò ricca “perché con quindicimila fan non puoi”, ma che le storie a qualcuno interessano, le mie storie, che l’onestà a volte paga più di qualsiasi euro in circolazione, e che ho perso troppo tempo focalizzandomi sugli altri e non su me stessa.
Fate attenzione: quel post lo scriverei ancora, e ora come allora la penso alla stessa maniera, adesso però ho forse la maturità di dire, finalmente, che non me ne frega più niente.
Non avevo scelta: o finivo con lo stomaco a pezzi, o iniziavo nuovamente come era una volta, con la sana smania di raccontare il mondo attraverso i miei occhi.
E dato che odio la sofferenza, ho scelto la seconda via.
Niente più screenshot di foto con fan che passano in tre secondi da cinque a duemila, niente più astio, cerco di sorridere a tutti, niente più “ma perché lei sì e io no?”, anzi, quando lo penso chiamo in causa la mia disciplina, che mi mette in riga.
Alla fine penso che ognuno debba fare il proprio lavoro, e il mio non è quello né di giudice, né di poliziotto cattivo, ma di narra-favole, è strano, ma benché futile che sia, per me è una sorta di missione.
Adesso tutti sanno come stanno le cose, quasi tutti sanno chi è onesto e chi no, quindi se scegli di essere truffato sei un coglione. 
Io ho scelto di continuare a scrivere, fare immaginare, e di guardare i coglioni sorridendo.
E no, il mio progetto “pane e salame” non l’ho mica mollato, ce l’ho sempre lì; chissà che un giorno porti a Milano la “deep Tuscany” tramite quel meraviglioso cibo basico con cui sono cresciuta. Che guarda caso è anche molto fotografabile. 

Ph: Mauro Serra

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