A Napoli è meglio perdersi per trovarsi

A Napoli è meglio perdersi per trovarsi


Ho tenuto questo post in sospeso per un sacco di tempo. In genere dopo che visito una città raggruppo subito le foto, le scelgo, le metto in bozze, e il giorno dopo scrivo, se non il giorno stesso.
Nel caso di Napoli è stato diverso: il giorno dopo raggruppo le foto, le metto in bozze, e il dì seguente niente, quello dopo niente ancora. E poi agosto le vacanze, settembre il lavoro duro, ottobre idem, tutte le scuse sono buone per non scrivere di una città magnifica. E ancora adesso non so bene cosa scriverò, non me lo so davvero spiegare, ma so che è giunta l’ora.

È un bordello: io so sempre che una città è come una signora, un signore o un bambino, sapevo che Atene era come una signora malinconica, allegra e stronza, e Ortigia un’isola fatta di donne, Atena e Artemide comprese. Ma Napoli cosa e chi è? Può essere una sorta di eroe mascherato, che agisce o nella notte o sgattaiolando nelle sotto-vie della città, un tizio che lotta o cerca di lottare contro i Cavalieri del Male, dei villani che sparpagliano sporcizia e terrore per le strade. Può essere una donna sui cinquant’anni, dai capelli neri che più neri non ce n’è, dalla faccia super truccata, e le mani super curate e con le unghie lunghissime, una mezza araba bellissima a cui piace farsi vedere nelle parti dove si può far vedere, quelle che lascia scoperte. Può essere un signore di sessantanni, un “artigiano della qualità” dalle mani nodose e dagli occhi sempre naturalmente umidi, che ogni tre per due t’allunga quei dolci, manco c’avesse un cilindro senza fondo, per cui al primo morso rischi di farti uscire la crema dalle orecchie. Può essere uno di quei monelli che scorazza, sguilla dalle mani della mamma e le passa in mezzo alle gambe, uno che fa gli scherzi alla maestra, che le mette il cuscino che fa le finte puzzette sotto al sedere. Può essere una donna di trent’anni con una canottiera con una spallina un po’ abbassata e una gonna di lino svasata, i capelli disordinati che urla al mercato che le arance sono in offerta solo per oggi (e oggi è tutti i sabati).

Perché non riesco a inquadrare Napoli? In genere sono brava a descrivere la bipolarità, l’eterogeneità, a racimolare tutto il contenuto di essi e a racchiuderlo in un’unica pillola, a ingoiarla e a farmi uscire fiumi di lettere e parole.
Forse Napoli è solo “troppo tanto diversa”, talmente tanto che sfugge. Eppure nella sua sfuggevolezza è tanto chiara, tanto concreta, tanto crudemente reale e vera. Vera anche quando non dice, anche quando cerca di operare al buio. anche quando pecca d’omertà. L’omertà a Napoli è così palese quanto celata.

È chiaramente meravigliosa, un capolavoro d’un pittore impressionista: fatta di pennellate decise ma sprecise, è ben lungi dall’essere un quadro rinascimentale. Perché è più facile essere un’impressionista, anche più drammatico, più “vivo”: così la vita ha più sfaccettature, non è incasellata in segmenti stabiliti, s’arroga il diritto di poter essere stanca, nostalgica e di poter pisciare fuori dal vaso.

Napoli è bella, diamine. È bella con tutte quelle vecchie insegne che si ritrova, le botteghe stracolme di statuine natalizie che paiono vogliano sfondare il vetro e camminare per strada, con le chiese e le donne di chiesa, con l’odore di lievito e pomodoro che t’entra anche nelle mutande facendoti letteralmente godere, con la lentezza di certi giovani e certi vecchi nel mangiare un pasticcino, nella stessa loro rapidità nel bere un caffè letteralmente rovente, con il suo groviglio di strade che manco il filo d’Arianna servirebbe, perché ci sarebbe qualcuno a tagliartelo, e farebbe bene, perché a Napoli è meglio perdersi per trovarsi.

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