Quello che ho capito della body positive

Quello che ho capito della body positive

Riprendo in mano il blog per parlare di un argomento che trattai già un po’ di mesi fa, e per cui venni attaccata anche abbastanza ferocemente.
La tematica è “calda”, social-mente popolare, dal punto di vista del marketing una miniera d’oro, di per sé semplicemente nobile: la body positive.

Andiamo per gradi e partiamo dalla superficie. Cosa succede se cerco “body positive” su Wikipedia? Ecco:

Il body positive è l’esatto opposto del body shaming. Consiste nel dare consigli ad una persona con problemi fisici, come l’obesità o l’anoressia. Viene vista come una forma più “raffinata” del body shaming.

Succede che parto confusa. Vado avanti con la ricerca e trovo la maggior parte dei siti che dice che il termine nasce tra il 2010 e il 2011 per merito di alcune donne attiviste nere “oversize”, che hanno cominciato a postare dei contenuti sui social media con l’hashtag #BodyPositivity.
– Allora si può dire “nere”, ed è “il” o “la” bodypositive? –
Non sono ancora convinta, allora “spippolo” ancora un po’, e scovo un video finalmente non superficiale di Blogilates, che mi apre delle interessanti finestre di lettura.

Cassey mostra articoli e interviste in cui arriva alla testimonianza più plausibile che il body positive derivi da una sorta di convergenza di movimenti, a partire dagli anni Sessanta quando nasce il Fat Acceptant Movement, per opera di un gruppo di donne queer e di colore, per denunciare discriminazione nei luoghi di lavoro.

A New York venne addirittura imbastito un “Fat-In”, in cui le persone mangiavano, bruciavano libri di diete e foto di Twiggy. Sempre ne 1969 un uomo di nomen Llewelyn “Lew” Louderback scrisse un articolo per il Saturday Evening Post intitolato, “More People Should be FAT,” come risposta alle discriminazioni subite da sua moglie. L’articolo è diventato il primo manifesto di difesa delle persone sovrappeso.
Stesso anno per un’altra associazione nascente, la NAAFhA, inizialmente chiamata la “National Association to Aid Fat Americans” contro le discriminazioni contro le persone grasse.  

L’anno dopo un gruppo di donne losangeline forma il movimento Fat Underground, più arrabbiato, più attivista, con un’alta percentuale di lesbiche. È loro la frase: “Diets are a cure that doesn’t work, for a disease that doesn’t exist”. Diciamo che ce l’avevano parecchio con i dottori perché promuovevano “la cultura delle diete”, e con la società che doveva necessariamente cambiare.

Scopro che ci sono un monte di correnti, il Fat Acceptance Movement, una cui costola è la “corrente” Health at Every Size, contro quei canoni estetici che hanno ripercussioni negativi sulla salute anche psicologica delle persone grasse. Nel libro “Diets Don’t Work”, Bob Schwartz, parla di intuitive eating, ovvero mangiare quello che si vuole quando si vuole senza seguire regole fisse.
E veniamo al Fat Shaming c’è un’interessante video della CBS News che invito a vedere stigma sociale per il quale mi verrebbe voglia di picchiare chi lo applica –  alla Fatfobia e dunque al Body Positive.
Pare dunque tutto sia iniziato dalla parola “fat”.

Così come pare che il copia e incolla di siti sia andato esso stesso virale, dato che la Body Positive non pare nata nel 2010, ma nel 1996 da Connie Sobzsack e Elizabeth Scott, che fondarono un’organizzazione no profit che insegnava, insegna, alle donne ad ascoltarsi, con l’obbiettivo di porre fine alle dannose conseguenze di vedersi in un corpo non accettato: disordini alimentari, depressione, ansia, etc…

Ok, e adesso cos’è questa #bodypositive che ci propongono e propinano aziende e influencer? Accettazione di sé, del proprio corpo di qualsiasi taglia, colore e provenienza. Una cosa fantastica. Accettazione che pare collegata però quasi esclusivamente alle donne sovrappeso, non solo escludendo tutte le altre, ma trattandole come non idonee a poter sposare il movimento perché “senza problemi”.

Vengo al mio caso. Mesi fa scrissi un post dicendo che io sto bene nel corpo dove sto, perché lo curo, faccio i miei #30minutidisportaldi , cerco di mangiare in maniera sana, evitando fanatismi di ogni genere, e perché lo “collego” sempre alla mente. Principiai la mia filippica con l’hashtag, #bodypositive, appunto.
Mangiata viva, perché quello non aveva niente a che fare con il body positive, e perché io non potevo parlare in quanto normopeso. Trovai la cosa geniale: chi predicava accettazione non accettava me.

Cassey Ho di Blogilates ha avuto un’ulteriore esperienza: nel 2015 fece un video in cui mostrava di essere un’insegnante di Pilates senza il “six pack” e per questo a volte snobbata. Divenne immediatamente un’inconsapevole paladina del body positive.
Qualche tempo dopo decise di seguire un regime alimentare particolare e di sottoporsi a nuovi allenamenti, documentando tutto.
Risultato? Lapidata perché aveva osato voler perdere peso, ridefinire il suo corpo.
L’errore più comune del body positive è negare di dimagrire, in quanto vezzo estetico; a questo punto allora io cambierei nome alla corrente, tipo Fat Pride. In tutta serenità.

Insomma, se sei magra, sei una stronza manipolata dai media, e a volte è vero. Se poi ti depili, ti trucchi perché vuoi correggerti i brufoli sei proprio una brutta persona. Se vuoi in qualche modo migliorarti sei un’eretica.
Io mi depilo, mi trucco e cerco di rimanere in forma, sia per salute che per i miei canoni estetici.

Vi ricordate Kate Moss e gli anni Novanta? Quel look da eroinomane che quasi tutte abbiamo desiderato? Io potevo solo desiderarlo perché avevo già troppi muscoli.
Dovevamo essere così, le modelle dovevano essere così e il mondo era così.
Triste ma vero.
Sempre nel documentario di Cassey ci sono delle interviste a delle modelle curvy, che dichiarano  che spesso vengono photoshoppate “al contrario”, per farle apparire più grasse, perché ora è questo che chiede il mercato.

Qual è allora il confine tra marketing e reale necessità di gridare accettazione? Tra manipolazione e voglia di cambiare le cose?
Dovremmo chiederlo prima di tutti a Dove, o alle tante figure social e televisive che sono nate e diventate ricche mostrando fieramente i loro copri sovrappeso (non ne ricordo una sottopeso che abbia mostrato altrettanto fieramente la cellulite, ma magari mi verrà in mente).
In ultimo ad aziende come Gillette Venus, entrata ufficialmente nel settore gaming con una serie di iniziative all’interno del videogioco Nintendo Animal Crossing: New Horizons, rendendolo ancora più inclusivo (altra parola chiave degli ultimi anni).

L’azienda ha infatti creato e messo a disposizione di tutta l’utenza una serie di pattern che consentono ai giocatori di personalizzare in maniera ancor più dettagliata i propri avatar virtuali, dando loro la forma fisica e la pelle che più li rappresenta. Più di 250 design creati per rappresentare corpi reali, dalla vitiligine, alle lentiggini, ma anche cicatrici e smagliature, fino ad arrivare alle protesi per arti.

Ci sono comunque diverse interpretazioni di questa corrente, palesi sui social, che sono riconducibili a due:chi è fiero di essere grasso e nega ogni tipo di dieta perché specchio di un’omologazione ingiusta, e o chi lavora sul proprio corpo per accettarsi o ne esalta semplicemente l’accettazione.  
Di conseguenza i 14 milioni di post con l’hashtag dedicato sono legati a corpi sovrappeso, smagliature, cellulite, o a trasformazioni fisiche. Su Instagram. Su TikTok c’è più spazio per le persone disabili.

Dai che piano piano ci capiamo, capisco, qualcosa.

Il problema, tra virgolette, sorge quando leggo frasi del tipo “il mio corpo è solo un involucro, quel che conta è la mia mente”, o “no diets” per partito preso, quando noto la mercificazione del freak, o il politically correct per forza perché adesso BISOGNA necessariamente essere così “normali” da non esserlo più.

Diets. Ho cercato la parola “dieta” sulla Treccani:

Dieta. Nell’antica medicina greca, il complesso delle norme di vita (alimentazione, attività fisica, riposo ecc.) atte a mantenere lo stato di salute. Nell’accezione moderna, una prescrizione alimentare ben definita, in termini qualitativi e soprattutto quantitativi, mirante a correggere particolari condizioni cliniche a scopo terapeutico, preventivo o sperimentale. 

Pensare che io ho sempre creduto che la dieta fosse semplicemente un regime alimentare, sano o meno che fosse; non gli ho mai dato una valenza restrittiva o correttiva.  Errore mio. Ma la Treccani sottolinea comunque la sua valenza terapeutica.
Quindi quando una branca del bodypositive non accoglie tout court le diete, accetta anche dei rischi ben più grossi, nel caso la diretta interessata fosse, ad esempio, obesa.
Banalmente credo che la tara del giusto sia la salute, non il sovrappeso o il suo contrario. La capacità critica e di analisi, contro un’invasione massiccia di immagini che consciamente o meno ci manipolano. Di dovere o meno acquistare quel rossetto con su scritto #bodypositive, di discernere che sia stato prodotto per un reale messaggio da veicolare o per una tendenza di mercato.
La verità è che ciò che mi fa paura di tutta questa storia è la sua profonda strumentalizzazione e la spesso inconsapevolezza del consumatore, del tutto plausibile poiché non è assolutamente facile barcamenarsi nel mare magnum del marketing e comunicazione.

Negli anni Sessanta la pubblicità ha fatto credere alla maggior parte dei nostri genitori che il burro faceva bene perché scivolava bene nelle vene e nelle arterie, qualche anno dopo che bisognava mangiare lo zucchero perché “pieno di vita”.

Detto questo, continuerò a voler bene al mio corpo, a trattarlo bene, assieme alla mia testa, s’intende, perché è chiaro che per stare positive con il body è necessario anche un approccio altrettanto positive della mente, no?

Comments are closed.