Road trip in Marocco: tappe, consigli e surf

Road trip in Marocco: tappe, consigli e surf

Era da tempo che volevo fare un viaggio che non fosse vacanza, ma che potesse essere degno di chiamarsi “esperienza”, e sempre parlando a proposito di tempo ne ho impiegato moltissimo per organizzare il road trip per il Marocco. Non ho usato nessuna agenzia, non ho usufruito dei potentissimi poteri da influencer con (molto) meno di 50K – manco la metà, insomma ho imbastito e ho pagato. Condivido questo giga post nella speranza di darvi idee e consigli utili se volete avventurarvi nel paese dai mille colori e odori.

Punto primo. Come ho scelto le località da visitare? Cercando di evitare il più possibile quello che ci propina Instagram in continuazione, tipo Marrakech e Chefchaouen, e “ingrandendo”. Alla vecchia maniera dunque: ho ingrandito la cartina del paese su Google Maps fino a trovare luoghi d’interesse (più o meno, e per me).
Punto secondo. Come ho scelto voli, hotel e macchina? Per quanto riguarda i voli facile: quelli più economici e che fossero con compagnie che non mi avevano fatto dannare in passato. Avendo preso Royal Air Maroc prometto solennemente di non commettere mai più questo enorme errore perché i miei bagagli sono stati persi all’andata e al ritorno con un’assistenza pari a zero. Addirittura in Marocco mi hanno dato dei numeri di telefono sbagliati, mentre in Italia sono stati a tratti cafoni, a tratti assenti. Quindi no, non volate Royal Air Maroc.

Per quanto riguarda la macchina l’ho prenotata su Rentalcars.com scegliendo la compagnia Budget. Più o meno 500/600 euro per 20 giorni, e una franchigia di 1500 euro che ti viene restituita quando riconsegni la vettura. Grazie a Rentalcars ho capito che la Hunday è una gran bella marca (la Hunday 10 ha resistito a strade allucinanti).

Hotel: un po’ li ho prenotati dall’Italia, altri direttamente su Booking durante il viaggio. Mi sono presa una scheda telefonica con Internet e mi sono risparmiata il costo del navigatore nella macchina, e pure di impazzire alla ricerca di Wi-Fi.

Soldi: abbiamo cambiato tutto lì, non in aeroporto, ma nelle varie città che abbiamo visitato. Paradossalmente il cambio migliore è stato quello in un villaggio di una manciata di persone vicino Imsouane.

La prima tappa scelta perché con l’aeroporto più a Nord è stata Fes, dove ci hanno subito bollati come turisti e spillato più soldi del dovuto per il taxi. Ci sono le tariffe scritte all’aeroporto, sono le uniche tariffe scritte che ho visto in tutto il Marocco, guardateci, non fatevi fregare, e vi dirò di più, potete contrattare pure quelle anche se sono “ufficiali”. E se vi dicono che non è possibile, ci sarà sempre un altro taxista disposto a portarvi in città per il prezzo che dite voi.
Stampatevelo bene in testa: in Marocco dovete contrattare tutto, e quando dico “tutto” intendo tutto. A me hanno fregato praticamente sempre perché per me è molto faticoso contrattare, ma è una cosa che si deve necessariamente sapere.
Vi informo che comunque che c’è un autobus che va dall’aeroporto alla città nuova; passa ogni morte di papa e non tardi, ma c’è. Io l’ho preso per tornare in aeroporto a prendere la valigia, perché sapevo che non avrei avuto nessun rimborso da Royal Air Maroc, ed è stata in fondo una bella esperienza perché ho conosciuto dei ragazzi molto gentili e simpatici. Ho socializzato ed ascoltato storie interessanti.

Quando arrivate a Fes dovreste già sapere dove si trova il vostro riad nella medina, che è comunque un labirinto, altrimenti verrete assaliti da grandi e piccini che si “offriranno” di accompagnarvi. Chiederanno poi il conto, e non monete, ma carta. Basta che vi vedano consultare una cartina o con atteggiamenti incerti
Per questo è fondamentale prendere una guida dal momento in cui mettete piede in una grande città marocchina: vi godete le meraviglie della città appieno, evitando, ogni minuto di dover dire “no grazie”. Davvero, vi cambia prospettiva. Io non l’ho presa, e ho sbagliato, ma nella mia mente volevo credere di voler andare all’avventura, un po’ a caso. A Fes non si può.

Le bambine a Fes sono tutte bellissime, così belle che se lo sapessi fare le disegnerei, anche se alla fine hanno già contorni neri e netti, frutto di un abile artista. Ti sorridono sempre, i bambini invece non ti mollano un minuto, vogliono i dirham, e se gliene dai 5 ti mandano a quel paese perché sono pochi. Fes pare spesso un asilo durante l’intervallo; i piccini corrono, urlano e ridono, rallegrando una medina poco popolata per l’Eid al-Adha, dal 10 al 14 agosto, la festa del sacrificio che celebra un episodio che è sia nel Corano che nella Bibbia, che consiste nello sgozzamento di un montone (o una pecora) secondo un rituale ben definito. Fes in realtà pare un asilo all’intervallo in generale, c’è sempre chi dribbla persone o parla ad alta voce. Finisce la scuola al mattino presto, silenzio, nel momento esatto in cui invece dovrebbe cominciare. È splendida prima dello squillare della campanella; una regina che avrà sempre una corona preziosa, se pur di molto arrugginita.
Ho molto insistito per andare a vedere la conceria di Chouara, uno spettacolo affascinante, trucido, e puzzolente, – infatti chi ti accompagna, perché c’è sempre qualcuno che vuole accompagnarti – ti consiglia di annusare della menta. In queste concerie vengono lavorate le pelli in vasche con acqua, urina di mucca e cacca di piccione, per renderle più morbide, per poi passare in delle altre colorate, dove degli uomini vi si immergono totalmente. Tutti i colori sono naturali e sono presi da fiori; il rosso ad esempio viene dal papavero.

Altra cosa che ho voluto vedere è l’Università al-Qarawiyyin, fondata nell’859 da Fatima Al-Fihriya, uno dei principali centri spirituali ed educativi del mondo musulmano e la più antica università del mondo. Ho apprezzato il concerto di cocci di rame in piazza Seffarine, la piazza “del rame”, appunto, e mangiato in santa pace dell’ottimo cous cous con albicocche e uvetta al The Ruined Garden grazie ai consigli degli “amici” marocchini di Leo. Per la cena ricordatevi di non ricordarvi di mangiare troppo tardi, altrimenti rimarrete a digiuno.
In città saremmo dovuti stare tre giorni, ma visto il disagio dei bagagli ci siamo stati una giornata intera.

Dopo un pieno di 400 dirham nella Hunday, siamo partiti alla volta di Khenifra con le corde del cuore a riposo e la fronte distesa da un matterello di sollievo. Nel corso del viaggio tutti i marocchini a cui dicevo che ero stata a Khenifra mi rispondevano “why there?”. È una meta sconosciuta, ma dall’”ingrandimento” mi ispirava parecchio.
Khenifra m’è parsa all’inizio un Carnevale. Tutti gentili, tutti ospitali, tutti che ti salutano e ti dicono “benvenuta a Khenifra”. “Dove sta la fregatura?”, ho pensato subito. Il rovesciamento della situazione precedente. Dopo uno stontimento iniziale è iniziata la presa bene. Talmente tanto che prima del tramonto Leo ha guidato per 40 km verso il Lac Aguelmam, un lago molto pescoso che si trova all’interno di una splendida foresta di cedri Ajdir Izayane e che fa parte del Parco Nazionale di Khenifra.

Non mi aspettavo di trovare una festa locale con tende, cibo, odori, e perfino biliardi aggrappati a terreni abbastanza scoscesi e bandiere del Parma calcio. Lì ho visto le scimmie, è stato ipnotico, perché era come vedessi me stessa ma con più peli.
IL lago di per sé non è l’ottava meraviglia del mondo, ma essere dentro una festa marocchina, invitati ovunque a bere il tè ed essere accolti con un gentile stupore mi ha fatto stampare un sorriso gigante che non mi sono levata fino alla sera.


La mattina dopo rotta verso Bin El Ouidane, sull’Atlante, passando prima per una delle dighe del fiume Om Er Rbia e prendendo una strada per la quale la nostra macchinina ha fatto un po’ fatica. A proposito di strade, in Marocco quelle principali sono perfette, quelle secondarie un po’ meno, e sempre e comunque costellate di persone ai cigli della strada sedute, o che vendono frutta secca, o che camminano da un villaggio all’altro, anche per moltissimi chilometri sotto un solo cocente. Ma arrivati in cima è stato come se dio mi dicesse “ok, hai passato la prova – in realtà più di una – adesso hai la tua ricompensa. L’hotel che ho scelto, Dar l’eau vive, si affaccia al fiume Oued l’abid che alimenta il lago artificiale Bin El Ouidane, pieno zeppo di carpe, ma m’è bastato ammirarne la quiete e fare un paragone Svizzera-Marocco. Tralascio il dettaglio di quando abbiamo preso il pattino per scorrazzare all’interno del lago artificiale accanto, non tanto romantico, ma a volte certe cose si fanno perché non le faresti mai.

Dopo una notte passata davvero al buio e davvero in silenzio (che spettacolo), mi sono diretta verso Ouzoud, passando per una via benedetta da un Signore che quando la fece era evidentemente sotto pressione. Come se Dio avesse detto: “a me qui garberebbe più che non ci fosse nessuno, solo la natura, comunque mi rendo conto essere in tempi moderni, buttiamo una gettata di asfalto e facciamola finita”. Da quella via un po’ disgraziata sono finita in una delle località turistiche preferite dai marocchini: le cascate di Ouzud, le più alte del paese, ovvero tre salti d’acqua alti circa 110 metri, sull’oued Ouzoud, a 1060 metri sul livello del mare nella catena montuosa del medio Atlante.

Si tratta di un sito molto turistico per i marocchini, meno per i non autoctoni.
Approfitto dell’esperienza parcheggio a Ouzud per raccontarvi dei parcheggi in generale in Marocco: dopo una manciata di giorni ad essere rincorsa da tipi con giacchette gialle fluo che chiedevano soldi dai 2 ai 20 dirham fino a “offerta libera” mi sono fatta spiegare come funziona.
In teoria i parcheggi, tutti, costano 2 dirham di giorno e 3 di notte, dunque se i vari parcheggiatori provano a chiedervi di più, voi mettetegli in mano codeste cifre, a meno che non vogliate naturalmente offrire di più, come abbiamo fatto noi a Kelaat M’gouna perché il parcheggiatore ci ha messo un cartone davanti al finestrino evitando così di trovare la macchina bollente.
In Marocco ci sono tantissimi poliziotti e tantissimi parcheggiatori.

Venendo a Ouzud, il parcheggiatore ha fatto anche un’altra cosa molto comune in Marocco, si è proposto come guida. Addentrandomi verso le cascate, ho subito apprezzato un bordello di bimbi a sguazzare in un’acqua tutt’altro che limpida, e poi un via vai di marocchini in ciabatte per la via sterrata e scoscesa, e dunque anche ripida, molto ripida, verso valle, omini con mini banchetti inerpicati chissà come sul sentiero sabbioso, donne con sotto braccio tajine da una parte e figli dall’altra, eroine loro, fermento ovunque. Una fatica fisica e anche psicologica, ma ne è valsa la pena per studiare i marocchini vacanzieri, che in ciabatte ci giocano a calcio meglio che con le Nike, e che portano tutto, ma proprio tutto da casa – è più economico.

Dopo il delirio di Ouzud, e su consiglio del manager di Dar l’eau vive, ci siamo diretti verso Demnate, una città berbera circondata dalle montagne Aghry, famosa per il suo quartiere ebraico e per l’Imi-n-Ifri, un ponte naturale che sormonta una gola. Arrivata a valle, nel letto del fiume, dopo decine di gran bei sorrisi da parte di grandi e piccini, dei ragazzi hanno insistito per regalarmi un paio di occhiali e altri a fare foto con me. Mi sono sentita una vera influencer anche senza che nessuno mi conoscesse.
In realtà la cosa più bella di questo posto è il posto dove abbiamo dormito: una struttura turistico-culturale frutto di un visionario o di un hippy, o di entrambe. Si chiama Ecolodge Espace Tamount ed ha stanze, un ristorante che fa una zuppa di ceci che avrebbe potuto fare a gara con quella della nonna Cecchina, un orto, un museo berbero, una stanza dedicata all’essiccamento delle erbe, un centro conferenze dove vengono organizzate attività artistiche e culturali, un frantoio e una vigna. La Toscana marocchina.

Attraversando l’Atlante ho provato quell’emozione di paura e fascino sconfinato che mi fa innamorare. Con la Cantabria ha funzionato e funziona sempre così. L’Alto Atlante è l’America dei canyon con la scritta Hollywood in sotto-impressione, è l’Africa berbera dei sorrisi gentili e delle persone ovunque nel nulla ad aspettare chissà che o cosa, è l’Italia dell’avventura in montagna, quando con il Pandino del nonno “sgreppi” di nascosto ai tuoi.

È quella bellezza davanti alla quale, finalmente, non puoi che fare un auto-goal, perché tanto vince per forza lei. E quando poi si trasforma in deserto, è come se palesasse il suo essere super-eroe. “Sì, sono sempre io, cambio costume per combattere il Brutto, perché non posso rimanere della stessa Bellezza, non sono antica, riconosco una moderna noia crescente, quindi cambio”, pare dica così. Poco prima di Ouarzazate, sita nella valle del Dadès, all’incrocio della valle del Draa (nella zona centrale del Marocco), a ridosso del deserto sabbioso del Sahara, le montagne diventano secche, siamo a ridosso del deserto sabbioso del Sahara, per lasciare spazio alla Hollywood africana e ad una delle kasbah meglio mantenute, glamour e tradizione insieme.

La qasba di Taourirt, costruita con fango e paglia, non è più abitata dalla fine degli anni 1930, ma prima era una fortezza-palazzo appartenuta alla potente famiglia berbera dei Glaoui. Anche qui c’hanno girato diversi film, da Il tè nel deserto a Il Gladiatore (anche “La Fattoria” nel 2006. Wow.). La qasba è bellissima, ma l’insistenza marocchina tipica delle grandi città mi ha fatto venire voglia di andare in albergo, un altro ecolodge, La Palmeraie, invece che a farmi un giro in città. Dentro la qasba un signore mi ha praticamente inseguita per farmi da guida, mentre fuori, alle porte della città vecchia, un ragazzino ha tentato di farmi pagare l’”ingresso”. Come no.

Se decidete di viaggiare in macchina, la soluzione “ecolodge” è l’ideale: si sta in mezzo alla natura, si mangiano gli alimenti lì coltivati e si sta in mezzo agli animali – a La Palmeraie c’erano pure i pavoni. Io ho sempre cenato divinamente negli ecolodge.
Sinceramente? Invece che andare a vedere gli Atlas Corporation Studios, ho scelto il supermercato (i supermercati ci sono solo nelle grandi città) per comprarmi un panino con il formaggio e l’olio d’argan, e poi il Victoria Drink Store per prendermi delle birrette, merce non facile da reperire, per poi partire alla volta delle Gole del Dades.

Come può la terra rossa limonare con il verde speranza e mettere le corna, nel frattempo, al cielo blu, e far sì che vada tutto alla grande? C’è un equilibrio, ciascuna gola è d’accordo con l’altra, nessuna gelosia, anzi ognuna prende il meglio dell’altra. Le Gole del Dades sono un commovente compromesso della natura, tra le spatolate di cemento sulle montagne, il loro cervello, o intestino, la loro flora (intestinale), e i capelli rossi come quelli di Anna. Un esempio egregio d’integrazione. Il Marocco del Sud è diverso. È ostile, solitario, lento, grande e diversamente bello. Non è armonico, ma disomogeneo come le sue strade, proprio per questo è come un attore capace di far ridere e piangere. Di quelli belli perché sono dei tipi, non perché sono Brad Pitt. Ci vuole una certa bravura. E poi è schizofrenico. I marocchini sono come la nonna Cecchina, stanno in mezzo alla strada e rischiano un frontale al secondo, dopo le 17 si moltiplicano, chiacchierano, fanno rumore.

Lo fanno anche in un paese sperduto e incantato dove sono arrivata al tramonto, Tamellalt, a nord di Kelaat M’gouna, la città delle rose, dove ad aprile si celebra una festa importantissima che la ricopre letteralmente di petali. È uno di quei posti dove ci si ferma Cristo, dove che dato che anche il buio ha paura del buio, ci sono sempre le stelle, l’architettura berbera rossa batte il cinque a rigogliosi campi sul fiume – lo scenario non è tanto diverso dall’orto del nonno Cirillo giù all’Arno, architettura berbera esclusa, e dove le donne berbere con mazzi enormi di granoturco sulle spalle ti invitano a bere il caffè da loro. È uno di quei (non) luoghi gentili, non tanto abituato a vedere italiani con i pantaloncini a fiori, per questo è un raccoglitore di shakeramento mani in continuazione. Mentre i bambini ti chiedono “bon bon”, una, due, tre volte, poi sorridono e smettono. Ebbene sì, questa gentilezza ostile mi ha commossa.

Ho soggiornato nel villaggio vicino, Tamaloute, nella Kasbah Chems, con una vista commovente, un silenzio quasi pauroso, e una colazione che finalmente ha incluso dello yogurt.
La Valle delle Rose è stato uno dei miei posti preferiti.

Altra tappa che consiglio assolutamente è Skoura, un’oasi abitata a pochi chilometri a sud delle montagne dell’Alto Atlante, che è ricca di kasbah: la più imponente, tra le tante interessanti, è Amerhidl, risalente al 1600, mentre quella di Ait Abou risale al 1800, ed è circondata da alberi di melograno, fichi, ulivi e meli. Non è facile descrivere cosa ho provato scorrazzando in bicicletta tra orti e deserto, tra palmeti e costruzioni in fango e paglia – un po’ come se il deserto fosse sulla luna e io su una navicella “desertale” – mentre è più facile esporre la sensazione di aver incontrato Hafid , uno studente di legge ad Agadir residente a Skoura, che si è offerto – gratis – di accompagnarmi sopra una vecchia e pericolante ksa, una sorta di casa padronale dove convivevano una ventina di famiglie, diverse dalle kashba, case private. Quella sensazione lì è stata di gratitudine e speranza. Hafid fa parte di un’associazione locale che si occupa di imbastire attività con i bambini ed è “gemellata” con altre associazioni internazionali, che fanno visita qui a Skoura per conoscere la cultura locale. Il suo sogno è viaggiare. Ha una luce negli occhi che brilla fortissima, i bambini lo amano, le persone lo chiamano in continuazione. È il boss buono dell’oasi. Incontrarlo è stato un dono, e sono sicura diventerà ricco abbastanza per fare tutti i viaggi che desidera.

In realtà prima di Skoura ho visitato anche Keelat M’gouna, la città delle rose, dove ho fotografato tutte le insegne possibili con disegni fatti a mano, ma dopo la luna nel deserto, Skoura, dopo un raggio di luce intinto nel miele, Hafid, sinceramente, è passata del tutto in secondo piano.

Ho soggiornato da Gite Kasbah La Palmeraie, un posto che pare la casa dei nonni marocchini, pittoresco, familiare e con un orto e un giardino di livello. Peccato per l’assenza di aria condizionata e ventilatore, sono morta di caldo. Un consiglio è quello di prendere la bici e andare a scorrazzare per l’oasi; l’ho potuto fare grazie alla struttura che aveva dei mezzi a disposizione.

La tappa successiva è stata quella consigliatami da più di una persona, infatti molto ma molto turistica. Ait-Ben Haddou è una splendida città fortificata tutta rossa, che è lì come una di quelle costruzioni di carta che risorgono quando apri una pagina di un libro tridimensionale, e che muore nella tua memoria quando la saluti per andare altrove. Muore perché la bellezza della carta tagliata a regola d’arte è edulcorata dalle cartine digitali dei turisti, tanti, tantissimi, che arrivano qui in modalità mordi e fuggi, si fanno fregare, ancora, soldi – noi compresi – fanno la loro foto per Instagram e se ne vanno. Verso pranzo Ait-Ben Haddou è Tokyo nell’ora di punta; uno spettacolo così dissonante con le palme e la sabbia che m’ha fatto storcere la bocca. Alle 17 il beato nulla: i turisti rimontano nei loro pullman e le uniche note che si sentono sono quelle dei cani e dei frigoriferi in funzione. Vi prego di visitare questa ksar di sera; dormite qui – io sono stata nell’Auberge Bilal, con magnifica vista alla città, e godetevi la quiete e il buio della notte, e la sorprendente placidezza del mattino. Ci sta pure un po’ di yoga.
Consigli utili: non pagate alcun ingresso per visitare la città fortificata – come ho fatto io perché sono scema – perché è del tutto gratuito, andate a mangiare nei posti meno popolari, allontanandovi dalla strada principale e addentrandovi nella città; io per esempio mi sono trovata benissimo all’Auberge Azaddou Tamlalte.

 A otto ore e mezzo di macchina c’è Essaouira, meta non prevista, ma io e Leo avevamo deciso che volevamo vedere l’oceano. Per arrivarci ho preso la multa della sfigata, ovvero invece che a 60 km/h andavo a 67.
Una cosa che dovete sapere del Marocco è che c’è polizia ovunque, ma davvero ovunque, pronta  a farvi una multa per eccesso di velocità, qualsiasi eccesso, quindi è molto importante rispettare i limiti. Mi hanno detto che è possibile contrattare anche le multe, io ne ho presa una da 150 dirham, ma ovviamente non l’ho fatto.
A Essaouira c’è un Carrefour, se vi interessa, dove potete trovare cose tipo le quiche al formaggio (un sogno dopo aver mangiato per giorni sempre tajine). In genere tutti i Carrefour hanno una “depandance” vicina dove vendono alcolici, e che è sempre nascosta, quindi se non vedete birrette al super, sappiate che esiste un luogo non visibile dove invece ci sono.
A Essaouira, oltre la birra, ho trovato quell’ovatta che spesso, molto spesso, mi metto davanti agli occhi. Anzi, ormai ci pensa direttamente lei. Quando ne ho bisogno scende giù e sipario. Si presenta in due modi: o sotto forma di placida malinconia o di cataratta, passaggio volutamente confuso per immaginarmi chiari mondi paralleli a quelli terrestri. Al mattino c’era Nino Manfredi, in Paradiso, a offrirmi del caffè. Io gli dicevo: “Oddio un caffè, sono proprio in Paradiso. C’hai solo il Lavazza, vero?”. Al pomeriggio c’era Renee Zellweger in “Chicago”, nella scena della prigione dove ascoltava un rumore dopo l’altro assommarsi nella sua testa per ricamare una melodia sempre più concitata e finire in un boato. Alla sera c’era l’amante di Eolo che sbatacchiava i suoi capelli a destra e a sinistra per prepararsi alla serata al Vanilla a Lido di Jesolo. Non sapeva decidersi sulla pettinatura adatta, alla fine se li è tenuti sciolti. A Essaouira ho trovato la calma, nonostante i turisti, i parcheggiatori, il brulicare della medina, perché c’era quel filtro malinconia che ha sbloccato il diaframma. L’avevo sottovalutata, invece c’ho trovato due o tre rime di storia e poesia.

Da visitare assolutamente il quartiere ebraico, la qasba, cioè la cittadella fortificata che difendeva il porto, una piattaforma protetta da mura merlate su cui si trovano dei cannoni spagnoli dei secoli XVII e XVIII rivolti verso l’oceano, e il porto (per anni fu l’unico porto marocchino aperto al commercio estero). Portatevi cappello e sciarpetta perché con il vento e l’umidità che ci sono rischiate di prendervi un raffreddore o un facile mal di testa.
Ho soggiornato all’Hôtel Riad Gnaoua nella medina, anche questo con una terrazza panoramica di livello, e delle stanze invece nella norma.

Dopo Essaouira siamo andati un po’ a caso, e ci siamo trovati a guidare in un posto che prima di sapere come si chiamasse ho pensato che fosse il villaggio di San Pietro, prima di entrare in Paradiso. Il “villaggio” si chiamava Paradise Valley, e l’abbiamo vista solo dalla macchina, perché dato che la struttura per soggiornare che ho scelto era abbastanza sporca ma soprattutto senza condizionatore non ho mai dormito, mai – 45 gradi – quindi di camminare avevo davvero poca volontà.
La struttura si chiama Gite Village Paradise Valley e no, non ve la consiglio, nemmeno per il cibo, dato che la nostra cena è arrivata dopo un’ora e mezzo, e che purtroppo sono entrata in cucina a constatare che non era il massimo della pulizia (così come la doccia: pensavo fosse la cuccia del cane).
In paradiso/inferno è dove è finito il mio viaggio ed è iniziata la vacanza a Imsouane, un piccolo villaggio di pescatori e surfisti.

La casa che ho scelto, Pure Soul House, è sul mare, cioè ha il mare come piscina, con una splendida terrazza, salone gigante e accogliente, camere pulite e molto “Pinterest”. Ho avuto un sussulto d’emozione quando ho apprezzato la raccolta dell’umido. Questa surf house “è dotata di due cuoche spaziali” la cui missione è riempiere le persone di cibo – sul serio.
Si trova sulla spiaggia, dove tra un surfata e un’altra facevo le mie passeggiate in compagnia della Canon, e dove ogni volta venivo fermata per scattare foto a qualcuno, che poi me le chiedeva via Instagram.

Questa è la baia di Imsouane, che cambia a seconda dei momenti della giornata, e dove ci sono uccelli che baciano il mare e ballano valzer davanti alla spiaggia, alcune barchette blu che servono ai pescatori per raccogliere i pranzi e le cene del villaggio, e le montagne che proteggono quel grosso bicchiere d’acqua dalla turbina che scatenerebbe le onde come delle Baccanali. In questa baia ci sono andata tutti i pomeriggi, dopo che la mattina si pigliano onde più altine e “di polso”, ma sempre e comunque docili. I flutti sono educati e bassi, ma ci si diverte come i pazzi. Quando qualcuno si azzarda a dire “che palle queste ondine”, qualcun altro (tipo me) tirerebbe volentieri fuori un cartellino rosso dritto per l’espulsione. Il surf non è solo questione di altezza (per me per nulla), ma di connessione. Se lascio stare i pezzi di pesci e rifiuti sulla spiaggia, i bambini che fanno la pipì dal ristorante sopra rischiando di beccare qualcuno sotto, la baia è veramente un luogo dove surfare diventa un pezzettino di un puzzle più grande, nel quale ti senti incastrare con il tramonto da una parte e con gli sguardi complici di altri surfisti dall’altra. È una formula chimica speciale per l’empatia. Quella autentica e riconoscibile.

È un’insenatura dove al mattino c’è l’alta marea, quindi le decine di barchette blu si assiepano tutte intorno come in attesa di un Monet a metterle in posa su qualche tela. Sul presto, molto presto, c’è però sempre qualche tavola che scia adagio sulla coperta morbida dell’acqua. Ci disegna sopra a volte righe, a volte stampe vichy. Non si parla, si sente solo “shhhhhh”, lo struscio sull’oceano. A pranzo la quiete diventa tempesta di voci e di odori. I pescatori finiscono di vendere, i ristoranti grigliano a più non posso, tutti con il metodo dello sventolamento cartone, le persone vociano e si scontrano, i bambini si schiantano in acqua e occupano abusivamente qualche barca come base per i tuffi.

I pescatori ci provano anche a farli scendere ma mica c’è verso. La calma del pomeriggio coincide con la bassa marea, così come l’esercito di Nettuno passa in pacifica ritirata, la baia si cheta per lasciare spazio all’avanzata dei surfisti alla conquista dell’onda perfetta. Mi duole dirlo, ma purtroppo codesto reggimento non è sempre corretto. M’è capitato, con davanti un tramonto voluto dal Dio delle Arance, ad assistere ad una stupida lite tra surfisti perché uno di loro mi aveva presa di mira, “tanto per” non faceva altro che venirmi addosso con la tavola, così l’altro si è arrabbiato. Una lite durata abbastanza con me come casus belli, ma senza manco essere presa in considerazione “dall’incazzato”. Non mi ha manco guardata, ha urlato contro altri uomini in acqua. Vai a capire. Io questi qui non li chiamo pazzi o rompi coglioni, ma poverini e rompi-incantesimo.
Ci vuole coraggio ad essere l’ago che buca quella bolla di fascino, equilibrio e spensieratezza imbastita grazie ad un coro di buone umane intenzioni e ad un’abbondante spolverata di magia gentilmente offerta dalla baia di Imsouane. Ci vuole coraggio, perché se non ricordo male, mi pare proprio di aver regalato più volte un sorriso – come a tutti quelli che mi stanno vicino in acqua – a quel tipetto lì. Credo che comunque continuerò a sorridere ai rompi-incantesimo, in Marocco e non, anche quando li scoprirò tali, perché non c’è esercito di Nettuno o avanzata di surfisti che tenga ad un cuore aperto che sorride.

Se dovete partire da Agadir o semplicemente stare una giornata in un luogo incantato dentro e fuori, a pochi chilometri dall’aeroporto (contrattate la cifra del taxi, mi raccomando) c’è la Villa Du Souss, il cui proprietario è un marocchino che ha vissuto in Europa (ha lavorato nel digital), per poi tornare in Marocco e trasformare la casa di famiglia in un ‘ncredibile villa dal giardino mozzafiato. Io ci tornerei subito anche solo per chiacchierare con il proprietario, un uomo di gran cultura con molte cose da raccontare e con cui confrontarsi con intelligenza. E poi ci sono tanti gattini che si chiamano ciascuno con un numero.
Una volta entrati ad Agadir ai bordi delle strade troverete persone che scuotono chiavi, significa che affittano case, ma io mi affiderei a Booking.

Dopo un post infinito vi aspettate pure le conclusioni? Il Marocco (non dei riad a Marrakech a cinque stelle) è difficile che faccia l’effetto “buona la prima”. Quando andai a Tamraght la prima volta la detestai, la seconda la amai, perché la vissi con gli occhi di un arabo. Non condividevo quasi niente con lui, ma la differenza mi affascinava. Stavolta ho fatto un viaggio lungo, duro, evitando comodità e addentrandomi nel Marocco più profondo con Leonardo, un europeo come me.
Il Marocco è un paese bellissimo e molto complicato allo stesso tempo. C’è tanta, davvero tanta spazzatura ovunque, spesso odori molto forti ai quali non siamo abituati, e l’insistenza, che fa parte della cultura, ad un certo punto ti mette alla prova.
Le donne alcune sembrano del tutto disinibite – più di una ha chiamato l’attenzione di Leonardo ammiccandogli con me davanti, o al contrario, sono coperte con calze e guanti. Da una parte devono pregare separate dagli uomini, perché potrebbero stimolare pulsioni sessuali, ma nelle grandi città non hanno manco la hijab.
I bar o i posti dove vendono alcool sono pieni anche se non sarebbe concesso bere.
Nei villaggi c’è gente che sorride, che vive del proprio raccolto, che è orgoglioso di vedere qualcuno che visita la loro piccola realtà, nelle medine delle grandi città accade spesso che tu sia scambiata per una banconota che cammina.
Dentro ci sono tantissimi e vivacissimi colori che è come se riempissero i tre toni di “fuori”, il giallo, il rosso e il verde. Questo contrasto è pazzesco.
Non condivido molte cose della religione musulmana, che poi influenza la vita sociale appieno, ma ne rimango sempre affascinata. Tuttavia non nascondo che sia difficile conviverci per così tanto tempo.
Se dunque avete intenzione di fare un viaggio così dovete essere o preparati o forse poco “viziati”, dovete fare di tutto per mettervi nei panni di una cultura che è totalmente differente dalla vostra.
È un’esperienza, un viaggio, non una vacanza, che digerirete nel tempo e solo quando l’avrete metabolizzata sarà unica e forte.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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