Eravamo quattro amici al bar

Eravamo quattro amici al bar

 

Da piccola mi affascinavano più i colori dei lacci delle scarpe e il modo in cui s’abbracciavano o duellavano invece che le scarpe stesse, passavo molti pomeriggi seduta in seggioline mezze disfatte di paglia ad ascoltare la nonna con le sue amiche che in una nuvola gigante di lacca e torte fatte con le uova di galline del loro campo discorrevano di quanto Brooke Logan fosse meschina e di “scoop” vari tra Messe e balera.
Da più grandicella sfidavo me stessa a vedere il lato meno visibile delle cose, dalla bontà di certe non-amiche ritenute streghe al suo esatto contrario, e rompevo le scatole a prof, nonni, tutti, non tanto sul raccontarmi storie, ma aneddoti, curiosità, quelle cose più personali che poi però non si trasformano in gossip.
Da grande ho detto tutto ciò ad una persona, di questo essere attratta non tanto alla facciata delle cose, ma alle sue basi e strutture, e questa ad un certo punto mi fa: “ecco perché sei così empatica”.
Avendo fatto il Liceo Classico ne sapevo benissimo il significato, anche se non avevo mai pensato di affibbiarmi questo aggettivo, e allora dato che doveva essere una cosa bella, decisi che sarebbe servita per fare cose altrettanto belle.

Una l’abbiamo imbastita con La Cimbali: un progetto in cui io sarei dovuta entrare nel cuore, nei ricordi, nel quotidiano delle persone grazie ad una passione comune italiana, il caffè.
Così, come la più popolare delle rockstar ho cominciato il mio “tour” con le prime due tappe ufficiali a Milano, per poi aggiungerne due a Roma, dove no, non ho cantato, ma mi sono piazzata in un paio di bar per città a braccare gente a caso, e a interrogarla sul mondo del caffè.
California Bakery e Cioccolati italiani nella città della madonnina, Pompi e Panificio Nazzareno in quella del Colosseo.

Abbiamo deciso di chiamare questo progetto #cimbalicoffeestories, con l’hashtag davanti perché è stato raccontato sia sulle mia pagine Instagram e Facebook, che su quelle de La Cimbali, sempre Instagram e Facebook.

Ogni volta che mi sono seduta a tavolino con le persone sconosciute da me prescelte per le interviste mi sono sentita un po’ Marina Abramovic (vorrei tanto scrivere qualcosa a suo riguardo, a proposito): “allora dimmi, qual è il tuo rapporto con il tuo caffè?”.
La cosa più bella è che grazie a quella bevanda per noi quasi vitale ho capito quanto siamo diversi e quanto sia bello esserlo. Con vite diverse, abitudini diverse, aneddoti diversi, e anche con un senso del pudore diverso. È proprio questa la figata dell’empatia: riuscire ad intrufolarti con gentilezza e consenso nelle storie altrui, chiunque sia l’altrui. È come essere l’amica di sconosciuti per un po’.  Della serie: eravamo quattro amici al bar, che il mondo non lo volevano cambiare ma narrare attraverso qualcosa in comune, il caffè appunto.

Così ho conosciuto Crysell, la Pocahontas delle Filippine, che mi ha regalato oltre che il suo immenso sorriso il colpo di scena d’essere la nipote di un ex proprietario di piantagioni di caffè vicino a Manila, la signora Maria, una che ha imparato il francese a Parigi parlando con i clochard e che tutti i giorni va al bar, Kos, detta Fatima, che ha portato dalla Somalia una bellezza e simpatia travolgenti e che il caffè-latte se lo fa fare solo dal suo barista di fiducia, Silvio, papà della meravigliosa Amèlie che di mestiere fa il rianimatore e che quindi di caffè ne consuma “abbastanza”, e tanti altri meravigliosi “micro-cosmi umani” che mi hanno confermato che il caffè non è solo pochi millimetri di bevanda, ma famiglia, tradizione, abitudine, aiuto, convivio, riflessione solitaria.

La mia missione è quella di raccontare storie, poterlo fare al bar a volte mi sembra davvero il paradiso. Se volete leggere quanta bellezza c’è dietro ad una tazzina di caffè date un occhio all’hashtag #cimbalicoffeestories.

Ph: Mauro Serra

 

 

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  1. Valeria

    31 January 2019 at 11:22

    che bello!si può dire che un buon caffè avvicina la gente 🙂 io non mi immagino la giornata senza il mio amato espresso.