La vendemmia con Osvaldo, il collezionista di trattori (con e senza freni)

La vendemmia con Osvaldo, il collezionista di trattori (con e senza freni)

Sarà che per metà vengo dalla campagna come “la donzelletta in sul calar del sole”, sarà che forse il verde ce l’ho dentro come uno smeraldo incollato ad uno dei tanti anelli di una ricca ereditiera, sarà che proprio lo smeraldo è uno dei sette tesori del buddismo, rappresenta la saggezza, sarà perché così è, ma è il colore che mi da più pace.
Sono tornata anche quest’anno con Cinzano in una perla verde delle Langhe, Villa Paglieri, a caricare gli occhi dei toni bucolici da distribuire poi una volta tornata a Milano nei giorni grigi.
Stavolta ho raccolto l’uva non con Marianna, ma con il signor Osvaldo, “lo zio”, ottantasei anni e viticoltore da settanta, la mia stessa polo verde Lacoste e le scarpe da uno che per i campi ci fa le maratone.

Osvaldo mi ha insegnato che le differenti specie di uva si riconoscono dalle foglie; insieme abbiamo raccolto la varietà Moscato Bianco, quella che poi diventa Asti D.O.C.G, discorrendo sul vino, la terra e le proprie passioni. Abbiamo fatto anche del gossip. Oltretutto ha una collezione di trattori, ne ha ben cinque, di cui uno bello esposto vista vigne.
“Questo è degli anni Trenta, ed è funzionante eh! Bisogna stare solo un po’ attenti perché non vanno i freni”, mi dice orgoglioso.
Visto che i campi sono in pendenza, Osvaldo mi ha confidato che qualche piccolo incidente dovuto alla mancanza di freni non è che non ci sia stato…
Tra due grosse e importanti parentesi, ha pure due moto, un Guzzino e una Guzzi, anni Cinquanta e Sessanta, funzionano anche quelle, il problema è sempre lo stesso: i freni.
E insomma, siamo amici.

Alla sua settima lamentela sul fatto che avesse fame, tra il taglio di un tralcio e una foto posata, altroché, siamo finalmente andati a mangiare, un pic-nic sull’erba degustando vino.
Ho quasi monopolizzato l’Asti perché dopo aver raccolto le uve Moscato mi pareva ovvio.

Ho già parlato l’anno scorso della storia Cinzano, quindi non mi ripeterò, ma mi fa piacere fare un’incisa etimologica (amo le etimologie) riguardo al nome Moscato, che deriva da muscus, che significa profumato, speziato, niente a che fare con il muschio; questo termine diventa popolare intorno all’anno mille, prima il vino ottenuto da queste uve veniva chiamato Apicio, Plinio lo denomina Apianae, in tutti e due i casi si faceva riferimento alla capacità di attrarre le api per la sua grande quantità di zuccheri e l’intensità non comune degli aromi. La sua coltivazione nel Monferrato inizia nel tredicesimo secolo, e dato che quella era un’aera importantissima come risorsa naturale, il sindaco di Canelli emanò una legge che diceva di imprigionare chiunque danneggiasse le vigne.
Giovan Battista Croce, gioielliere del Duca di Savoia Carlo Emanuele I, viene considerato il fondatore della branca enologica piemontese che ha dato origine ai vini dolci, aromatici e poco alcolici tra i quali appunto il Moscato d’Asti.
Il Croce produsse alcuni vini ottenuti da sperimentazioni da lui stesso eseguite e pubblicate in un libro dal titolo “Della eccellenza e diversità dei vini che sulla montagna di Torino si fanno e del modo di farli” (stampato nel 1606), dove trattò anche di alcune tecniche ancora attuali al giorno d’oggi.
Fine pippone (per me comunque interessante e dovuto), torno alla poesia.

Dunque, è stato lì nel sorseggiare Asti che ho chiuso gli occhi e aperto tutti gli altri sensi, e ho sentito l’odore della salvia, della terra, la stessa che il nonno portava sempre a casa da sotto le scarpe, del ragù la cui ricetta della nonna era “olio e tutto il resto”, ho percepito il rumore della campagna, motori di trattori, api e qualche altro volatile, ho assaggiato il formaggio che sa di formaggio e la pasta che sa di pasta all’uovo. Ho sorriso ringraziando non so chi per avermi fatta così sensibile alle piccole cose, che in realtà poi sono grandissime.
Ho parlato con Mario Sandri, il proprietario della villa e fornitore di Cinzano, che mi ha detto una cosa bellissima: “questa qui è tutta architettura naturale, e noi la rispettiamo”.
Lui quasi la venera la sua terra, le Langhe, i suoi vitigni, dove è convinto che debba essere l’uomo a prendersene cura, non le macchine, perché niente potrà sostituire la sua originalità.
Li ho guardati poi tutti in fila, Osvaldo, lo zio, il papà di Mario, la mamma, bravissima cuoca, Mario: una famiglia intera che è li a coltivare la bellezza, a onorarla, che non ne può fare a meno, non ne può starne lontano. Quello lì è un incanto non artificiale, dove l’uomo ha il ruolo di estetista, curandolo e rendendolo ancora più curato e affascinante.
M’è salita la nostalgia, la voglia di casa, e nel frattempo di stare ancora un po’ a intufare gli occhi in quel mare calmo, ascoltando Osvaldo parlare di vigne e lamentarsi dello stomaco che brontola, e aprire il cuore alla meraviglia.

Su IG trovate invece la prima puntata del fotoromanzo con protagonista Cinzano. 
Ph: Mauro Serra

 

 

Comments are closed.
  1. GIULIA

    24 September 2018 at 15:57

    Io adoro i tuoi post e non perchè tu non sia figa, anzi lo sei eccome, ma perchè riesco a percepire la veridicità di te come persona…continua così