Dai boscimani metropolitani ad Anna Oxa: quando si voleva la pelle nera

Dai boscimani metropolitani ad Anna Oxa: quando si voleva la pelle nera

Ne è passata di acqua sotto i ponti da quando strusciavo per il Corso Italia, in su e in giù, avanti e indietro, per dire mille volte “ciao” a tutti, e poi lamentarmi di aver salutato quegli stessi.
Faceva figo conoscere gente e proferire che metà di quella gente non ti andasse a genio.
Ne è passato di tempo da quando noi, specie appartenente alla razza ariana, abbiamo smesso di volere essere come i boscimani della Namibia.

Se camminavi di notte ad Arezzo rischiavi davvero o di vedere nessuno o di sbattere contro qualcuno.
Era il boom delle lampade abbronzanti. Quando entravi in un centro estetico ti pareva d’essere in uno stabilimento siderurgico, la Ilva con i suoi frastuoni, e quando riuscivi ad entrare nella tua cabina, dopo una fila interminabile, ammiravi le mutande bianche fluorescenti con l’euforia che dopo pochi minuti avrebbero fatto da linea di demarcazione tra l’accettazione e la malattia.

“Piglia un po’ di sole, pari malata”, e via di eritemi, arrossamenti, arnica e febbre solare.
Tutto nacque quando Anna Oxa decise di farsi un giro con Bert, lo spazzacamino di Mary Poppins, e di tornare nera. Lei che era sempre stata una statua fatte di sabbia e latte.
Da lì capì che anche io dovevo fare qualcosa, non potevo essere una mozzarella, sarebbe stato molto meglio una braciola di maiale arrostita.
Così, dopo anni passati con la nonna che mi spalmava addosso la stessa Nivea prima del mare, al mare, dopo il mare, in città e in campagna con spf naturalmente 0, decisi di farmi le lampade, e di entrare così nella tribù dei boscimani aretini: denti bianchi, pelle che accelerava la gravità verso il basso e capelli sempre più biondi.
All’inizio non mi davano nemmeno una crema, nemmeno degli occhiali di protezione, ma si sa, l’impianto siderurgico ha le sue regole ferree e una sua disciplina, prima o poi avrei avuto anche io le mie protezioni. Più poi che prima.
Tornavo a casa che ero una pellerossa, poi però la metamorfosi genetica a boscimano mi rendeva accettata e soprattutto non costretta a giustificarmi per il mio aspetto ariano.
Allora sì, ero come Anna Oxa, il cummenda Zampetti e Jerry Calà messi assieme, quindi felice e bella.

In città ovviamente non mettevo mai la protezione, al mare o olio (sarà stato quella della frittura con l’etichetta di qualche marchio di bellezza) o spf 15. Prima dell’esposizione mi mangiavo tutte le carote dell’orto nella speranza di diventare di un’altra razza. Mi ricordo il giorno in cui le grattugiai e me le lasciai addosso.
Ero folle io, e nessuno mi aveva mai sensibilizzato al tema “solare”. Né a me, né a tutta Arezzo, a quanto pare. Importava solo essere abbronzati.
Con il tempo mi sono piombate addosso informazioni, ho letto, e ho scelto: non mi espongo al sole, perché effettivamente odio stare ferma a non fare nulla, applico sempre la protezione 50, in città e al mare, e quando faccio surf o sport all’aria aperta porto sempre con me stick e creme.

Devo dire che una parte di Arezzo è rimasta ancora ai colori della Namibia, ma il movimento indipendentista bianco sta cercando di far valere la ragionevolezza, mentre a Milano prevale il secondo.

Prendete il sole se vi piace, ma proteggetevi, che poi sennò, tra le altre cose, vi vengono anche le rughe.

Con Collistar, Spray Solare Protezione Attiva
Foto di Mauro Serra

 

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