Lavoro pagato o lavoro-volontariato?

Lavoro pagato o lavoro-volontariato?

Non è ridicolo, non è nemmeno assurdo, è inconcepibile.
Ogni tanto leggo su Facebook certi annunci di lavoro che mi fanno venire voglia di far saltare teste.
“Lavoro retribuito”
“Paid job”
Prima di continuare a scrivere, devo strizzare ben bene la pallina anti-stress sul tavolo.
Cerco su Google la definizione di lavoro:

Occupazione specifica che prevede una retribuzione ed è fonte di sostentamento 

Ecco.
Siamo a dei livelli in cui le definizioni sono relative, così come la professionalità vista da chi dovrebbe pagare, ma non lo fa.

Prima la giustificazione era la visibilità: “aggiustami tre tubi in casa, e dirò a tutte le mie amiche che idraulico bravo sei”, questo il tuo compenso, oppure “scrivi per il giornale top, in cambio avrai una reputazione altrettanto top”, e magari anche una discreta dose di pedate sul culo.
Prima almeno si dava una motivazione al lavoro a gratis, adesso no.
Adesso se leggi lavoro, devi intuire, o nei casi dei più coraggiosi, osare di chiedere se sia pagato o meno.
Paid what? Ti garantisco così l’accesso al glam, allo star-system, le chiavi del Paradiso e pure fustino Dixan.
Chi non vuole essere tempestato di domande, appunto, precisa: “paid job”.
Santissimi Numi dell’etere.

Ora, il mondo è pieno di teste di cazzo. E anche di Paperoni che vogliono essere sempre più Paperoni regalando baci e abbracci finti al posto di monete anche di ferro riciclato.
Il problema non sono le teste di cazzo, ma i coglioni che le assecondano, specie se i coglioni sono grandi, vaccinati e con esperienza.
Credo che sia questione di logica: meglio lavorare per nulla o non lavorare? Credo sia meglio non lavorare, giusto?

Appena arrivata a Milano, 22 anni, anche io ho fatto una breve esperienza non pagata. Cogliona, tanto c’era papi ad aiutarmi con l’affitto.
Sinceramente grazie a quei tre mesi a gratis conobbi una persona che m’indirizzò ad un altro lavoro (fighissimo e naturalmente pagato), ma nonostante quella cosa mi servì, non fu una buona giustificazione per accettare di farmi il mazzo a costo zero per l’azienda.
Dunque sì, anche io feci una boiata. Giovane ed ingenua.
Adesso invece sono uno squalo per fare ciò che sarebbe di più normale, e soprattutto dovuto: fami pagare.
E oggi, a trentatré anni, decine di collaborazioni per riviste non certo sfigate, un libro, programmi web e tv, anni di copywriting per marchi prestigiosi, di blog, insomma dopo un sacco di cose orgogliosamente fatte e pure bene, c’è ancora chi, leggi aziende piene di quattrini, mi propone job e not paid.
Ma io vi mangio vivi.

Ciclicamente torno su questo tema per sensibilizzare voi tutti a non accettare nulla di gratuito, non si fa nulla in cambio di niente, se non dare amore. E a chi offre lavoro non si da amore, ma la propria professionalità sotto forma di un contratto, una delle cui clausole deve anche recitare un compenso.
Il lavoro non è visibilità, e neppure amicizia.
I PR stolti o i datori in generale che fanno lavorare gli amici o chi porta loro cassate siciliane o gianduiotti di Torino per accattivarsi simpatie, in quanto carenti di competenze, sono dei poveretti.
E per favore, smettete di scrivere su Facebook “lavoro pagato”, potete sempre scrivere “volontariato”.
Ci starebbe di chiudere con un vaffanculo eh. Infatti.

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