Lo chiamavano un film con le contro-palle

Lo chiamavano un film con le contro-palle

Letteralmente travolta da un improvviso raptus. Così è stato quando nel bel mezzo di un piacevole aperitivo, ho raccattato auricolari e chiavi della bici dal tavolo verdolino, ho salutato frettolosamente le mie amiche, e mi sono scannata in bicicletta fino all’Uci Cinema di Bicocca.
Ho corso talmente tanto che dopo che il freddo s’era tramutato in caldo (anche io ho i super poteri), sono arrivata che la sala non era manco pronta, e quando lo è stata, sono volata in bagno (devo essere bella rilassata quando guardo un film) in tre secondi, per poi accomodarmi, un po’ tesa, ma felice. Ero la prima.
No pop-corn, no Coca-Cola, no amici: al cinema si deve andare preferibilmente da soli, o con qualcuno che sta zitto, e che magari commenta con te dopo.
Mi sono apparecchiata solo sul mio seggiolino, perché se poi avessi dovuto spostare giacca e borsa dalla seduta vicina, mi sarei indispettita.
Oh, stavo per guardare il film di Gabriele Mainetti, Lo chiamavo Jeeg Robot, il più figo dell’anno, a detta di tutti.
Appunto. Dopo i primi dieci minuti è iniziato il mio dramma personale: gli sbirri che inseguono disperatamente Santamaria, Enzo Ceccotti, e Luca Marinelli, lo Zingaro, che uccide a cazzotti in testa uno della sua banda. Da lì è cominciata l’ansia, una di quelle che hai quando il tuo punto di vista è egregiamente direzionato da una regia impeccabile: l’ansia perché speri che Santamaria, nonostante viva rubando, si salvi sempre, e che lo Zingaro un colpo riesca a portarlo a termine, nonostante lui sia la crudeltà in persona. Anche perché se mi venisse a rubare a casa uno come Marinelli, io gli pregherei di rubare me in primis.
L’ansia o è segno di disagio o di partecipazione. Nel mio caso è stato entrambe, e comunque fastidio, che per un film non è una cosa necessariamente negativa, dato che è coinvolgimento.

In sostanza la pellicola è una di quelle dove i “cattivi” sono in un certo senso buoni, come nei cartoni animati appunto: Lupin era il cattivo, eppure tutti tifavano per lui; e fu così che il sempiterno punto di vista buonista di Heidi, Polly Anna, e Belle e Sebastien se ne va a puttane.
C’è tanta violenza, sia esplicita, che non, c’è tanto sangue dall’inizio alla fine, c’è un mondo veloce, egoista, del prendere o lasciare, e se lasci muori. C’è Ilenia Pastorelli, una ex gieffina, che fa la parte della figlia di uno dei criminali rimasti uccisi in una “missione”, che ha subito violenze dal padre, e che è “rimasta sotto” dopo la morte della madre, tanto che crede che Hiroshi Shiba, protagonista di Jeeg, sia Enzo.

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Anche lei è la violenza: abusata dal babbo, abusa a sua volta della privacy di Enzo, che diventa poi un super eroe capace di scassinare un bancomat con la sua sola forza fisica, costringendolo a tenerla con sé e comprargli un vestito da principessa, momento quello, in cui lui abusa di lei nel camerino. È un cerchio di violenza che finisce poi con l’ennesima, e finale violenza, che non vi dico, sennò vi rovino parte del film.

Con la forza si può ottenere tutto: questa pare la morale della favola, questa è l’evidenza fino alla fine del film.
Film che è costellato da perle che sgusciano fuori dalle loro conchiglie a forza e a sorpresa: il fatto che lo Zingaro sia un “artista” o un wannabe tale, anacronisticamente vestito, che si esibisca con classici della canzone italiana, e che sfoggi questo suo lato “artistico” in momenti palesemente inaspettati e inopportuni rappresenta un continuo sgranare gli occhi, per poi sorridere, e per infine smuovere qualcosa sotto la pelle che fa obbligatoriamente drizzare i peli.

Solo il fatto che sempre lui, Marinelli, decida di uccidere una famiglia di camorristi con una giacca di paillettes, danzando e lottando insieme, e filmando il tutto, in un mix di trash ed eleganza, egomania e disperata ricerca di consensi nel suo mondo non-giusto (perché ciò che importa è il riconoscimento dell’eroe) è una giustificazione valida per un premio Oscar.
O la fissazione per i budini di Enzo: l’ho trovata geniale, e funzionale al suo personaggio.

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Lo sviluppo del film stesso pare una danza, che tra disequilibri e differenze, finisce con una lotta ad armi pari, con un duello tra eroe ed anti-eroe.
È stato proprio lì che mi sono resa conto, ho avuto il tempo di pensarci, che il film che avevo visto non era uno squallido tentativo di raggiungere l’America con i suoi effetti speciali, come era parso con la pessima pellicola di Gabriele Salvadores, “Il ragazzo invisibile”, ma una cosa a sé.
Guardate che mica è facile creare degli eroi con dei super poteri che non siano ridicoli. Eppure Mainetti, non so come, c’è riuscito.

Alla fine del film, in sala nessuno s’è alzato al primo titolo di coda, come purtroppo succede sempre. Chissà perché alle persone non interessa il nome di chi si è occupata dei costumi o delle luci.
Siamo rimasti tutti lì per un po’.
Io non ero sicura mi fosse piaciuto il film. Ma scese le scale mobili, uscita dal centro commerciale, e inforcata la bici, mi sono messa Henry Mancini nelle orecchie, ho ancora una volta tramutato il freddo in caldo, fino a quando arrivata a casa, alle 23 circa, dopo una mini passeggiata in solitaria, ho preso la decisione: Jeeg Robot è una gran bel film, va solo metabolizzato, perché invece che essere ricoperto di zucchero, è crudo, così come lo vedi.

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