Noi trentenni col cancro della parola, Panterone del Night Club sotto casa

Noi trentenni col cancro della parola, Panterone del Night Club sotto casa

In questi giorni sto facendo delle scoperte letteralmente sconvolgenti.

Premessa brutale e ovvia: ho più di trent’anni e faccio parte di quella fottutissima generazione che ha smesso di parlare, e che ha cominciato a scrivere. No, che avete capito, mica a scrivere poesie, romanzi, lettere o cartoline. Manco la Smemo abbiamo più per farci cuori trafitti con le iniziali in mezzo. Abbiamo cominciato a scrivere “cmq”, invece che “comunque”, “kome”, invece che “come”, a mandare simboli a forma di lettera che ancora non ho capito che diavolo voglia dire, non spiegatemelo, e così via. Tramite supporti virtuali, ovviamente. E questo ormai si sapeva.
Ne ho parlato assai nel mio libro (compratelo, è un ordine), del fatto che noi trentenni sfigati abbiamo vissuto a cavallo tra le bollette salate della Sip perché chiamavi l’amica del cuore che non vedevi da dieci minuti, e quelle della 3 perché ti addebitano sul conto l’abbonamento a giochi a cui non ti sei mai abbonata, siamo passati da Donkey Kong che arrivava a conquistare la principessa, ai video a 360 gradi, dalle cartoline mandate a tutti costi alla zia, la nonna, la sorella della tris-nonna senza dimenticare nessuno sennò si offendevano, al bombardamento continuo e giornaliero di Whatsapp che manco Hiroshima nel ’45.

Noi trentenni ammalati di emoticon e col cancro maligno della parola, sta proprio morendo, che siamo stati troppo ammaliati dal digitale per poter tornare indietro alle nostre (bellissime) origini.
Noi trentenni che per chiedere a qualcuno di uscire o non glie lo chiediamo perché siamo dei codardi, o glie lo scriviamo via Facebook, Whatsapp, o via Tinder.
Noi trentenni con uomini che sono diventati castrati, e donne, di conseguenza, le panterone del Night Club sotto casa, quindi buone solo a certe cose proprio perché aggressive.
Noi trentenni che o non sappiamo che fare della vita (a parte “influenzare” a quanto pare), o che ciondoliamo da un lavoro all’altro maledicendo tasse e partita IVA (presente), noi trentenni che grazie a dio abbiamo dei genitori che sono vissuti negli anni Ottanta che se possono c’allungano volentieri qualche soldo, noi trentenni con il mal di vivere, noi trentenni con il terrore in faccia. E non è mica colpa nostra, se siamo così c’è un motivo, o più di uno.

Credevo che la generazione prima della mia, quella dai 16 ai 25 anni fosse messa pure peggio, perché è nata col cellulare in mano. Credevo che se un giorno dovessi avere un figlio sarebbe stato fottuto, sarebbe stato un personaggio socialmente incapace.
Poi in questi giorni mi sono imbattuta, per caso, su ragazzini e ragazzi coi brufoli, e ho intravisto un barlume di speranza.
Mi sono trovata a parlare con Filippo, 16 anni, di passioni e relazioni.
“Sono fidanzato e molto innamorato”, mi ha detto guardando in basso e facendo roteare il telefono su se stesso sopra il tavolo.
“E com’è, bella?”
“Bellissima”
Gli ho chiesto come avesse fatto a conoscerla, e come l’avesse approcciata, credendo che la risposta più ovvia sarebbe stata “le ho scritto su Facebook”, e invece lui mi ha risposto che l’aveva conosciuta in Presidenza, e che aveva una paura fottuta di avvicinarsi, ma che poi ha chiesto il numero ad un’amica di lei, e le ha scritto.
Ho pensato poi ai trentenni che hanno paura e basta. E se la mia è una generalizzazione, è una generalizzazione frutto di “interviste” ad amiche, amici, ed esperienze personali.
Mi ha poi detto che lei è una discreta, che non le piace mettersi in mostra (che non è una troia insomma), che è una ragazza speciale, e che ha tanta paura di perderla perché è davvero innamorato. Filippo suona, ed è credo l’unico musicista che abbia mai conosciuto con la testa sulle spalle. Filippo è un uomo con la “u” maiuscola.

Poi una sera in discoteca mi sono trovata a parlare con un ragazzo di 23 anni che orgogliosamente mi ha detto fare il maestro di sci, come suo papà, un altro il macellaio, e un altro ancora lavorare nell’azienda di papà. Tutti rigorosamente under 25, con un lavoro, felici di vivere e non timorosi di parlare normalmente con una donna senza necessariamente doverci provare, e magare farci una partita a biliardo. Ovviamente non a Milano, perché a Milano non si comunica, è un dato di fatto. Si meta-comunica. E si vive di “ape” e chat inconcluse.
Vista la mia voglia a scandagliare l’argomento “social vs sociale”, chiedo ad un 24enne che di lavoro fa il tizio che dirige il traffico nella seggiovia, come fa ad approcciare una donna, e lui mi risponde che le parla, non sta a perdere tempo a scrivere, perché non ha senso.
Non ha senso. Vallo a spiegare ai trentenni.
“Hai Tinder?”
“Cos’è?”
“Una particolare ‘agevolazione’, ma lascia stare”
“Tu ce l’hai?”
“Purtroppo non sono più nel regime agevolato”
Ho preferito glissare e lasciarlo nel suo mondo.

Allora una speranza c’è. Che possa esistere ancora una comunicazione “normale”, spero quasi che le chiamate al telefono di casa, e il citofonare tornino di moda come una cosa hipster, che la gente abbia voglia di fare, che sia contenta di essere così com’è, che un uomo chieda di uscire ad una donna dal vivo, in diretta (non streaming), che addirittura non abbia Facebook, o Instagram.

È un paradosso, ma a Innsbruck ho conosciuto un ragazzo senza un social network (io ne ho millecento), e con un cellulare dal vetro così rotto da non leggere manco l’ora. L’ho trovato affascinante solo per questo. Ma dato che lui aveva trent’anni, ancora non aveva ben chiaro cosa voleva fare nella vita.
Cosa dobbiamo fare per tornare come i sedicenni o ventenni di oggi, cioè apparentemente e meravigliosamente “normali”?
Come fa un uomo oggi ad avere paura, perché la paura è normale, ma a fregarsene nonostante tutto, ed andare avanti? Che se le donne mordono è per colpa loro?
E come fa una donna a smettere di dover fare l’uomo?
Come si fa a far capire ai trentenni che basterebbe solo ‘smollarsi’, pensare meno, fare meno gli strani, gli alternativi, i tenebrosi, e parlo sia per donne che per uomini, per stare meglio?
Sento trentenni che da anni hanno in bocca la frase “non lo so”, ecco, come si fa a levargliela di bocca? Quando arriva il ‘lo so’?”

Sinceramente? È molto triste. Dapprima ho pensato: “Lucia, sei tu la pessimista”, ma chi mi conosce, chi mi legge, chi mi segue sa che sono tutto tranne che questo.
E poi penso di essere una privilegiata per avere trent’anni e cose certe, cioè che so di avere: un lavoro che amo, l’agire secondo la regola del “sapere”, l’immaginazione per potermi creare dei mondi paralleli, il fatto di essere social ma anche sociale, non faccio alcuna fatica a parlare dal vivo, e ho pure un telefono fisso. Sul fatto di essere normale e il concetto di normalità ancora non ci siamo, ho dei parametri un po’ sballati, ma ci sto lavorando.

Morale della favola: trentenni, ringiovanite di una decina d’anni minimo, per favore.
Sui quarantenni per ora glisso.

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  1. giulia

    14 February 2016 at 12:20

    Concordo pienamente, nostante il web aiuti a organizzarsi via whatup &co, trovo molto bello prendersi un caffè e parlare guardandosi realmente negli occhi!!!:D