Donna di mare “slammata”, donna di mare non bagnata

Donna di mare “slammata”, donna di mare non bagnata

Io me li immagino tanto bene come se ce li avessi davanti: con i pantaloni che un po’ già s’allargano, con dei look che si stavano pian piano arrampicando a quelli d’una manciata d’anni dopo. Tipo Nanni Moretti in “Io sono un autarchico”: capello lungo, baffi e un esercito non ufficiale di colli alti e giacche beige o nere che adesso farebbero invidia al più incallito wannabe ragazzo cool.
Io me li immagino da dio quel capannello di amici triestini che nel 1969 andavano a chiedere disperatamente alle Autorità della Federazione Italiana Vela di poter fare una regata, una gara di barche nel mare di Trieste.
E quando dall’alto della FIV l’Uomo del Mare, altro che del Monte, disse sì, che la regata la potevano fare, mi figuro anche, con un gentile gavettone di tenerezza esploso direttamente dentro al cuore, quegli stessi amici che, gasati dal buon esito della sentenza, se ne andavano in giro per i Circoli velici ad insistere con gli inviti, promettendo come premi addirittura bottiglie di vino.
Nel 1968 erano 51 barche in mare, e la vittoria andò a Piero Napp, divenuto una leggenda per la storia della regata triestina, perché uno dei suoi rimorchiatori, il Pegasus, da decenni offre ospitalità alla giuria.
Anni dopo le barche sono migliaia e la Barcolana è una gara, una festa che ti fa ballare perfino con non proprio comodi pastrani addosso, una fiera dove si pubblicizza di tutto, dalle borse ai wc (giuro), dall’abbigliamento tecnico alle macchine.

E poi, sorry, ma la Barcolana è Trieste, quella che pare una splendida città vecchia (e per me è ovviamente un complimento), ma che quando ti giri intorno consolidando sempre più la tua credenza ecco che l’altra parte, quella giovane, ti tira un calcio in culo facendoti non cambiare, ma rivedere la tua idea precedente.
Insomma sì, la Barcolana è anche quell’affascinante donnone di nome Trieste, la cui età varia a seconda di dove soffia il vento, e che io continuo ad ammirare e studiare con estremo e vivo interesse.

Essendo andata lì con Slam, marchio che apprezzo per la sua autenticità nei confronti dell’amore per la vela e che trasuda innanzitutto dalle persone che ci lavorano, il primo giorno sono stata slammata da capo a quasi piedi, e buttata, assieme ad una manciata di bambini, nella barca Alfa Romeo del team Fast and Furio (di Gabriele e Furio Benussi), che avrebbe dovuto vincere solo per il nome. Ed in effetti ha vinto.
In barca ho imparato, random, diverse cose: che esistono termini buffissimi come “sfrullare”, che fa freddo sul serio, che ognuno ha il suo ruolo e che senza lavoro di squadra la barca a vela non è una barca, che il gennaker e lo spinnaker non sono due posizioni né di Crossfit, né di yoga, né tanto meno sessuali, che una barca può piegare molto meglio di quanto pieghi io in moto (ma in effetti non ci vuole tanto), che non si deve toccare nulla altrimenti si potrebbero fare casini, che a volte sentirsi in balia della natura è bellissimo.
Perché sì, tu alla fine sei praticamente sopra qualcosa che galleggia e si sposta grazie al vento e basta. Altro che benzina, Non è una magia questa?

Il secondo giorno sono stata ugualmente slammata da capo a quasi piedi, ma con un look più hardcore perché “se vai con la barchetta a motore vedrai che ti bagni”.
Infatti, grazie ad un oufit che avrebbe fatto invidia pure a Travis Rice in pista, nonostante flutti, gavettoni e ondeggiamenti, e ne sono uscita asciutta indenne e felice.
Direi che l’esperienza gommone, ovvero vedere da vicinissimo la gara, è stato come scoprire uno scrigno e trovarci dentro tante chicche ricoperte di zucchero.
Le chicche sono le centinaia di barche che tu vedi più o meno allineate all’orizzonte, addirittura se ti ci fissi, pare che l’intero ritratto sia uno di quei giochini ottico che ti fa fare l’oculista per misurarti la vista.
E lo zucchero è la dolce atmosfera che aleggia (o veleggia) quando tu te ne stai fermo a farti dondolare dal mare stando a guardare le svariate acqua-vetture che gareggiano.
E non sembra nemmeno una gara, non si sente tensione, né eccessiva competizione, sembra più un gioco tra amici, tanti amici.

E comunque un gommone va. Eccome se va.
Quindi il passaggio dallo status del quanto cullare m’è dolce in questo mare a quello del Tagadà della domenica pomeriggio con tanto di giacca a tamarissimo tessuto sub, è stato un attimo.
Il segreto è molleggiare.

Alla fine me ne sono tornata a casa con un sacchetto di pensieri, una vellutata di emozioni e sempre la stessa certezza: io sono una donna di mare.

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Barcolana 2016

 

 

 

 

 

 

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