Antocostasette: ho tartan voglia di

Antocostasette: ho tartan voglia di

Ho cercato cosa avessero in comune il Giappone con la Scozia, e alla fine ho trovato essenzialmente tre cose: il whiskey, un – a quanto pare indimenticabile – match di rugby del 2019, e Antonella Costantino.
La “cara signora Costa” delle mail, che nella vita non virtuale è appunto Costantino, beve whiskey con moderazione, non segue il rugby, ma crea kimono giapponesi con stoffe tartan scozzesi, autorizzando la nostra immaginazione – quella non ha zone gialle, arancioni o rosse – a pensarci cittadini del mondo, e non solo abitanti di casa nostra. Alla faccia del Covid.

Si può dire kimono con sorpresa? Perché se tu ti volti, ti giri, alzi un braccio, fai una giravolta e la fai un’altra volta, quei kimono lì hanno un dettaglio che non ti aspetti: un disegno pitturato a mano, un interno di un altro colore, delle maniche “alternative”. L’ho detto.
E dico anche che codesto universo mi ricorda, con mio sommo gaudio, quel che resta della moda che non copia, fiera della sua unicità, creativa, fatta un po’ per noi nostalgiche, un po’ per le “nuove consapevoli”, e per le estete.

Antonella arriva però ad Antocostasette dopo varie circonduzioni, corto circuiti e strade parallele; l’odore delle stoffe, il rumore dei rulli di legno sui banchi delle mercerie, e i fili attaccati sugli abiti le avevano già imbastito un cammino abbastanza chiaro. Ma a volte si sa, i vecchi amori prima o poi tornano, e solo quando siamo pronte per amare nascono quelle storie autentiche, dove manco la cattiva sorte ti fa scappare a gambe levate, anzi.

C’è da dire che è stata tutta colpa della mamma, Elsa Grisanti, se Antonella è diventata quello che è. Elsa fu spedita per direttissima dai genitori da Mantova, dove tedeschi portarono via tutto quello che poterono, a Milano, nella sartoria dello zio Battistino, in via Vincenzo Monti. Abitava in piazza Firenze, dove ci passava il tram 1, che prendeva per andare a vedere Paolo Natale Costantino, il suo futuro marito venuto da Messina a studiare Ingegneria. Leggende narrano che Elsa a volte sveniva dai geloni perché usciva con scarpette e abiti troppo leggeri (anticipava lo streetstyle) e che Paolo una volta la rimandò a casa perché si presentò all’appuntamento troppo “stramba” e con dei tacchi troppo alti, così tanto che svettava sul fidanzato in maniera inappropriata.

Finì che Paolo lasciò casa a Milano, una delle poche disponibili che “affittavano ai terroni”, prese Elsa, sarta e ormai anche modella, la sposò a Mantova, e si trasferì a Roma, dove fondò la propria azienda di ascensori.
A Roma i Costantino avevano già dei negozi di stoffe, così come a Milano, dato che la nonna nei primi del ‘900, da Messina con amore, col marito marinaio, per mantenere lei e i suoi 5 figli aveva imbastito un piccolo business di produzione di doti. Piccolo che divenne poi grande.

Dal suo trasferimento nella capitale, Elsa non tornò più a lavorare, ma la passione per i vestiti era così grande che sfornava quotidianamente vestiti per la famiglia, mentre il fine settimana prendeva Antonella e Cinzia, l’altra figlia, e le portava prima a scegliere le stoffe in piazza Argentina, da un loro parente che aveva un negozio, poi dalla zia Maria che lavorava da Valentino come ricamatrice, a chiedere aggiornamenti sulle tendenze.

A casa Cinzia leggeva tonnellate di libri, Antonella cuciva con la sua macchina da cucire che si chiamava Milly e apprendeva tutti i trucchi dalla mamma. Tipo che se vuoi stirare il cappotto, basta lasciarlo fuori dal balcone in balìa della nebbia milanese, così come se vuoi i capelli ricci (e anche delle brutte cervicali).

Nonostante la grande passione, Antonella però non si mise a cercare lavoro nella moda: dopo Ragioneria s’iscrisse a Economia e Commercio, ed entrò in politica per affari di cuore, fino a quando il babbo le chiese di aiutarlo in azienda, dove c’è poi rimasta per vent’anni.
Per tutti quegli anni, quando il papà non c’era per lavoro o per vacanza, lei si tingeva i capelli. A 24 anni il notaio dell’azienda la chiama “la signora dai capelli blu”.

“E poi arriva la moda?”, vi chiederete voi.
No, poi arrivano il matrimonio e la pizza. Arriva la prima figliola, Flaminia, e per 4 anni la gestione di una pizzeria, fino a che incontra Alessio, molla il primo marito, e a 43 anni ha il secondo figlio e il terzo cambio di vita, Milano.

Rientra in politica, per mollarla dopo poco delusa e dichiararsi pronta a riprendere un discorso in sospeso da troppi anni, la moda, ma quella che non corre. Stufa marcia del fast fashion, delle spese inutili, del vacuo fascino di quelle vetrine colorate piene di capi copiati sapientemente, decide di creare un marchio che potesse offrire capi che durassero una vita, come quelli di una volta. Presente il detto delle nonne “una cosa ma buona?” Ecco.

Antocostasette nasce dunque quattro anni fa, prima di tutto per Antonella, per un suo bisogno, riprendendo il suo colpo di fulmine, il tartan. La scintilla scoppiò quel giorno in cui entrò nella stanza della vicina di casa Maria Rita, l’amichetta d’infanzia di sua sorella Cinzia, il cui padre all’epoca faceva il direttore di Banca, e quindi viaggiava molto per l’Europa. Maria Rita aveva la camera arredata con i mobili inglesi, con una poltrona a dondolo di legno rivestita di tartan per lei meravigliosa, e un Lessie peluche grandezza reale.

Da lì in poi la sua mente ha sempre associato il tartan a qualcosa di bello e intoccabile, legato alla libertà. Il punk, Vivienne Westwood, il grunge, avevano ripreso il tartan.

E non ha mai smesso di ricercare e collezionare pezzi tartan, tanto che parte delle sue collezioni sono costituite da pezzi vintage che fanno da tela a messaggi dipinti a mano, per la creazione non solo di capi ricercati, ma soprattutto di manifesti ambulanti.
Da buona figlia degli anni Sessanta, è convinta che anche con la moda il mondo si possa cambiare, con o senza tartan. Così ha preso un cappotto di Zara e c’ha scritto sopra “No plastic”, ha recuperato un soprabito vichy e c’ha disegnato la bandiera della pace, ha stretto una collaborazione con Humana Vintage per la realizzazione di alcuni kilt.
Attentissima alla sostenibilità, è sempre in cerca di associazioni con cui collaborare per la salvaguardia dell’ambiente, e inoltre le stoffe da lei utilizzate sono rimanenze di magazzino, non fa produrre nulla di nuovo.

Questo perché vuole lasciare un mondo migliore ai suoi figli, è una questione di responsabilità; infatti Antonella non ambisce ad avere clienti fisse, ma a quelle ragazze, donne, che comprano il capo per la vita, non gonne usa e getta. Punto.

Appena la pandemia lo permetterà, si trasferirà a Houston, a portare oltreoceano il made in Italy, il suo messaggio sostenibile e anche una sana dose di bellezza.

Buffo, e bello l’universo, che ti mette sulla strada ciò che realmente ti rende viva; brave noi che abbiamo il coraggio di toglierci dagli occhi quel velo di Maya per buttarci nel vuoto più intenso da poter riempire. E no, non è mai troppo tardi.   

Comments are closed.