Vademecum per digital e qualcosa, marketing bla bla, e me

Vademecum per digital e qualcosa, marketing bla bla, e me

Era da un po’ che non mi arrabbiavo. Mi ero detta: “Lucia, basta con i tuoi post in cui ce l’hai col mondo brutto e cattivo, perché tanto non risolvi nulla, risulti antipatica e pesante, e poi ti piglia pure l’ulcera”.
Però come faccio a non arrabbiarmi? Ho smesso di inveire social-mente contro le smandrappate che comprano fan (adesso faccio direttamente nomi e cognomi a chi mi chiede: “e questa compra?” – sono una stronza, ma non è un segreto per nessuno).
Tuttavia alla luce di ben sette mail da sette diverse persone negli ultimi giorni, con richieste pressoché ugualmente assurde,  voglio fare una specie di punto della situazione. O meglio, scrivere dei “punti di riflessione” per digital PR, marketing manager, quelli che si occupano di comunicazione e di relazioni con i digital content creator (sorry, non so più come chiamarli/mi). E anche per me. Per ricordarmi, a volte, di quanto sia cretina.

1. Parto dall’argomento “post da fare approvare”: quando mi vengono chiesti “post da fare leggere prima della pubblicazione” io mi sento una deficiente. Nello specifico, quale sarebbe il timore? Il fatto che possa scrivere “Pisa merda” o “il vostro phon fa cagare il cazzo”? Voglio dire: mammina m’ha dotata di un cervello e di buon senso. Ma soprattutto, rullo di tamburi, di professionalità, pure troppa. Oppure dovrei aggiungere, alla fine del post, un elemento molto anni Ottanta, tipo: “è  proprio bellissimo questo phon, compratelo tutte perché è davvero fantasmagorico. Parola di Lucia Del Pasqua”. Credibilissimo eh?

2. Se il mio post non viene approvato significa che io devo necessariamente spendere altro tempo – denaro – e pagare, a volte, un fotografo. Perché io col mio “Iphone 6 da povera” (cit) le foto non le faccio. I rework (le revisioni) si pagano.

3. Chiedere novantamila contenuti più la rava, la fava e la Marianna in carriola con le mutande viola non è proficuo per nessuno. I followers non sono scemi. Ingegnarsi per far sembrare il tutto non uguale è ormai una missione. Bombardare l’utente di “contenuti comandati” è pura follia.

4. Non sono il mercato del pesce. Di Milano o Napoli. La cifra che chiedo è quella. Ricordo anche a tutti i geni del marketing che io pago le tasse al 50%, quindi non posso guadagnare 100 euro per un lavoro. Ci rimetto. E se dopo non so quanti anni di lavoro mi fate valere quella cifra allora o ho sbagliato di grosso io, o non capite un cazzo voi.

5. Viaggiare senza fotografo vuol dire rischiare. “Ma tanto lì trovi qualcuno“, ti dicono. Qualcuno chi? Che succede se trovi un PR (o qualcuno) antipatico (anche quello fa la differenza) e incapace di scattarti una foto? Ve lo dico io: o che non produci contenuti o che pubblichi una foto di merda. Quindi non pubblichi, nel mio caso. Quindi, basta dire “non c’è budget per un’altra persona”. Perché l’altra persona è necessaria.

6. Perché in Italia la parte preliminare, ovvero quella della proposta del progetto, non prevede una fee? Il processo creativo? Il power point? Il piano di produzione? Sono ore di lavoro anche quelle.

7. Mi sono davvero rotta il cazzo, sorry, di trovarmi con gente che non sa manco scrivere una lettera e fa pure foto orrende, con tutti i fan comprati che si piglia il quintuplo di me. La finiamo?

8. Per fare foto, per lo meno a me, ci vogliono tempo e ispirazione. Io non sfodero il cellulare e scatto.

9. Siamo tutti amici, ma quando si parla di soldi no. Non mangio la pizza pagando in monete d’amore.

10. Quando le aziende capiranno che “la foto per domani” non può essere fatta perché magari oggi sono altrove e ho un altro lavoro, perché il mio tempo ha un valore, e perché pretendere cose impossibili non è segno di rispetto, sarà un mondo migliore. (Chissà quando).

11. Non sono un servizio pony, di consegna e riconsegna, o meglio lo sono quando richiedo io i vestiti o altre cose, non quando mi si commissiona un lavoro. Le cose mi devono arrivare a casa. Punto.

12. Perdo troppo tempo a far tornare le cose, a renderle belle, fattibili e non marchette spudorate. Troppo tempo. Mi appassiono a progetti pagati due palanche e poi li faccio anche se ci rimetto anche. Sono una cretina. E le aziende e le agenzie ne approfittano.

13. Fare la travel blogger non è viaggiare a gratis. È prendere appunti, fare foto, stare sveglia fino tardi per creare contenuti, post-produrre e scrivere. Insomma è un lavoro. E pure molto faticoso.

14. A meno che non mi stiate simpatiche o simpatici, a meno che mi facciate fare qualcosa di fighissimo, unico e originale, io voglio essere pagata e messa nelle condizioni di poter fare il mio lavoro. Non farmi sentire quasi sempre come una che chiede la luna.

15. Le PR danno la colpa alle aziende, le aziende ai grandi capi, i grandi capi secondo me manco sanno una ceppa. Mai nessuno che si prenda la responsabilità di dire: “io di influencer marketing non capisco una beata fava, ma mi c’hanno messo e ora m’arrangio”. Mai.

16. Quando le PR mi chiedono di mandare loro i link dei post penso sempre: “dunque che cosa fanno nella vita?”. Non spetta a loro (anche) andare sul profilo dell’influencer, individuare il post, copiarlo e incollarlo nel loro file, presumo, Excell? No vero? Perché questo “non devo mica farlo io”. Infatti lo fa il Fantasmino Formaggino, una nuova figura professionale che fa fuffa e che però non c’è mai, perché guarda caso, in azienda o in agenzia ci sono otto Fantasmini Formaggini che però si occupano di altre fuffe. Che tipo di fuffe? Voi non potete capirle, quindi non ve le spiego, ma di sicuro dentro hanno tre parole “digital”, “no budget” e “attivazione”.

17. Mi è capitato, giuro, che un’agenzia mi offrisse un lavoro, ma la produzione sarebbe dovuta essere a carico mio. Produzione significa organizzazione del viaggio, spostamenti etc. Con soldi anticipati da me, ovviamente. Mi sfugge un passaggio: una storyteller (cambio nome, va’) è invitata da qualcuno, il quale qualcuno però non si occupa minimamente di farti sapere come e quando arrivi. Ok. I’m glad to inform you that l’agenzia dovrebbe fare anche questo. (Ma quanto lavoro per queste agenzie, vero? È davvero terribile).

18. Non si sparisce. Se io, storyteller, invio un progetto, una proposta per la quale ho lavorato ore a qualche brand o agenzia pretendo una risposta. O affermativa o negativa. Rientra nel codice professionale e umano del rispetto. Sì, lo pretendo.

19. Cari PR, mandatemi una mail. Una. Una e soltanto una per spiegarmi cosa volete da me, e mettetici in fondo anche quanto budget avete a disposizione. Mandare cinquantasette mail con mezza informazione in ciascuna non rientra nel mio concetto di lavoro intelligente. A meno che inviare sessantanove mail abbia un senso specifico. Vi sto dando degli scemi. Forse sì eh.

20. Per me ricevere tanti regali ed essere invitata agli eventi o ai viaggi è un onore. Ma la parola “invito” non rientra nella sfera “contratto”, così come “regalo” nel concetto di “collaborazione”. Se io pubblicassi su Instagram tutti i regali che ricevo per prima cosa andrei in bancarotta perché pago sì poco, ma chi mi fa le foto è una figura professionale, dunque non vive di gloria, secondo mi dovrei chiamare “Esselunga” oppure “viale Zara”. A scelta.

21. Avere delle giornate piene zeppe di attività, mi riferisco ai viaggi organizzati, è del tutto inutile. La produzione di contenuti richiede tempo. Arrivare stremata a fine dì, aver provato tutto ma senza avere avuto tempo di documentarlo è inutile. Non faccio viaggi per me, ma prima di tutto per raccontarli agli altri.

Incredibile che ancora sia qui a spiegare che postare su Instagram non è giocare, che chi compra fan truffa e che il lavoro, come ogni cosa, ha delle regole. E io amo le regole.

Ph: Mauro Serra

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