Quarantotto ore tra Monterosso e dintorni: cosa fare e vedere

Quarantotto ore tra Monterosso e dintorni: cosa fare e vedere

Io la Liguria non la conosco. Sono stata due volte a Genova, che ho amato, nonostante abbia quasi sempre litigato con tutti, e a Recco per fare surf. Fine. E delle Cinque Terre ne avevo sentito parlare solo dalle mie amiche che tornavano dai week end là con sacchi di focaccia e di foto con casette colorate. Non ripassavo teoricamente le Cinque Terre dai tempi di “Linee Chiare”, il sussidiario dalla copertina blu che avevo alle Elementari e che spiegava tutto di qualsiasi argomento a parte l’educazione sessuale (andavo dalle suore), geografia compresa. Monterosso al Mare, Vernazza, Corniglia, Manarola e Riomaggiore. E non ho copiato e incollato da Wikipedia.
Dunque, quando Flavia della Pro Loco di Monterosso, nel suo originalissimo modo, mi ha invitata a spendere due giorni dalle sue parti, ho accettato incuriosita, sia perché non potevo essere l’unica a non avere foto di casine variopinte, che per smentire o meno il luogo comune della non ospitalità dei liguri.
A Monterosso, diciamolo, piace vincere facile: appena arrivi, scendi praticamente sul mare, e venendo da Milano è ancora più semplice apprezzare di essere accolti dalle ali blu delle acque limpide. Quando poi ti c’addentri, in quella chicca di paesino, ti pare davvero d’essere a Cinecittà, ma non nel senso che dai un pugno ad una casa e viene giù perché ti pare finta, ma nel senso che è tutto molto cinematografico. Ti c’immagini scene. I personaggi ci sono tutti, e anche gli elementi scenografici.


Come le panche sotto i portici o le panchine davanti ai negozi. Tra l’altro non ci sono solo davanti ai negozi d’una volta, ma anche a quelli più moderni. Vedi l’Esselunga con la sua sfilza di anziani assiepati tra l’entrata e i carrelli. I vecchi non hanno vergogna né di stare in silenzio né di meditare in solitudine fissando un punto preciso e facendosi distrarre da certe stramberie di qualche giovanotto o dallo struscio in scioltezza di coppie che “non tornano”. Ci sono anche quelli che sanno stare in silenzio tutti assieme sembrando tristi quando invece, magari, sono solo assorti. Non ci sono troppi giovani buoni a stendere le braccia tenendo in pugno le ginocchia, col culo che schiva un disegnino di un cuore e una scritta d’amore, e lo sguardo che s-guarda. Non è vero che ciò accade perché gli anziani hanno più tempo o pazienza, credo sia un fatto d’esperienza, di stanchezza d’essere inquieti, ma non di tristezza. Mia nonna passava i pomeriggi tra sedie e panchine, e non perché era infelice, ma perché era curiosa e anche fieramente lenta.

Comunque, dicevo: c’è la memoria storica del paese, ci sono i bambini che giocano nella piazza principale, l’Oratorio da dove poter far nascere gialli e leggende, il bar sul mare dove poter imbastire storie d’amore estive che poi, chissà, potrebbero durare per sempre, l’hotel frequentato dall’habitué che decide di cambiare vita a settant’anni, le feste di paese che aggiungono quel folklore che piace tanto agli stranieri (potrebbe già essere un film esportabile anche all’estero), le dimensioni piccole di un borgo da far nascere pettegolezzi, drammi e matrimoni, perfetti per tenere incollato allo schermo lo spettatore, e c’è persino il convento dove poter far rifugiare uno scrittore che partorirà l’opera del secolo dopo tanto travaglio (magari me).
Fantasie cinematografiche a parte, voglio raccontarvi i miei due giorni nelle Cinque Terre con base a Monterosso. Cosa ho fatto, visto, dove ho dormito e mangiato. Magari potrà essere una guida utile per alcuni di voi.

L’Hotel La Colonnina in realtà non è nato come un albergo, ma come trattoria negli anni Cinquanta, sita là dove adesso c’è il ristorante Ciak. Solo nel 1973 la famiglia decide di cambiare business e aprire l’hotel in via Zuecca, dove c’era una villa nella cui attuale cantina ci stava il locale dove si salavano le acciughe.
Ci sono svariati motivi per cui soggiornare all’hotel La Colonnina; il primo in classifica è sicuramente la colazione, preparata quasi interamente dalle sapienti mani di Luci, che è anche la “capa” in fatto di latte art, ovvero nel disegnare animaletti sul cappuccino. La colazione dovrebbe essere esattamente così in qualsiasi albergo a tre stelle: con una scelta accurata, selezionata, con l’angolo di prodotti bio, e ingredienti di prima qualità. Insomma: (relativamente) poco ma tutto buonissimo.
Il secondo motivo è la terrazza giardino che ti accoglie cullandoti, facendoti sentire un ospite, insomma qualcuno che nei prossimi giorni sa di non dovere preoccuparsi di niente.
Il terzo motivo è la hall. Meravigliosa, che ricorda i film di Wes Anderson, quella sala lì, annunciata da una vecchia Singer esposta, ti riporta all’Italia che fu. La notizia negativa è che la vogliono rifare, ed io sto pregando affinché ciò non succeda.
Il quarto motivo è l’accoglienza, alla faccia di quello che dicono dei liguri, che all’Hotel La Colonnina è impeccabile. Forse perché essendo gestito da una famiglia, ti senti subito a casa.

Per chi vuole dormire un po’ fuori, a 3 km da Monterosso, in mezzo al verde e in un’atmosfera magica e rilassante, c’è l’Eremo della Maddalena, una struttura che viene menzionata per la prima volta nel 1244 e che fu abitata da monaci benedettini. Oggi ha 10-12 posti letti, ed è divisa in due ali unite da un bellissimo chiostro. Essendo stato un monastero ha anche una suggestiva chiesetta, dove però, purtroppo, non si possono fare celebrazioni. (Voi ecclesiastici, cosa state aspettando?). Piscina, verde, e silenzio attorno completano la cornice di questa meravigliosa residenza. La proprietaria assieme a Marzia, mente dell’azienda Agricola A Scià, che si occupa del recupero e alla valorizzazione dei vigneti, ha perfino convocato l’artista trentino di land art Marco Nones per creare un’istallazione dedicata alla rinascita del vigneto storico dell’Eremo stesso.

La prima cosa che mi ha colpita di Monterosso è stato sicuramente l’Oratorio della Confraternita dei Neri Mortis et Orationis, accanto alla Cattedrale del borgo. A Monterosso ci sono due confraternite, la bianca che era quella dei ricchi, e la nera che era quella dei contadini e pescatori, ovvero delle persone più povere. La confraternita nacque circa nel 1500 a Roma per l’esigenza non scontata per l’epoca di dare degna sepoltura ai morti; la chiesa invece fu fondata nel 1600 da gente comune che si adoperò ad aiutare vedove, vittime dei naufragi, orfani, tutti quelli che non potevano permettersi un funerale. Considerata come un gioiello barocco ligure, ancora oggi è considerata come la chiesa dei funerali, ed è carica di simboli: il colore predominante è il nero, mentre nell’oratorio della Confraternita dei Bianchi o di Santa Croce è il bianco, colore anche della veste usata dai confratelli durante le processioni, gli stucchi immortalano il potere ecclesiastico da una parte e militare dall’altro, raccontando iconograficamente la morale che tutti siamo costretti al giudizio universale, anche il papa. Il crocefisso principale è in cartapesta, perché appunto, trattandosi della confraternita dei poveri, questo era il materiale più economico e che avrebbe dato una resa comunque eccellente.

Sul retro della chiesa è venuto fuori un altro locale, che pare sia stato o una chiesa pre esistente, o un mercato del pesce o un palazzo. Insomma, questo oratorio necessita costantemente di costose ristrutturazioni, che sono finanziate essenzialmente da feste e percorsi eno-gastronomici teatrali, come Bescantà, celebrazione estiva che riprende un’antica tradizione monterossina durante la quale certi personaggi del paese andavano a “bescantare”, ossia a cantare sotto le finestre di altri abitanti. Se la persona prescelta scendeva ed offriva vino, acciughe salate o salsicce, questa era cancellata dalla lista dei cattivi. Adesso i bescantà fanno il giro del paese con degli occhiali arrangiati con fette di limone legate insieme da corde e fanno il giro dei ristoranti del centro storico ricevendo in cambio dei loro canti vino o cibo.

A quanto pare Monterosso ama le feste popolari, tanto che ce n’è pure una dedicata ai cornuti, questa in inverno, dove alcuni burloni del paese pronunciano ironici discorsi sui cornuti del paese o presunti tali. Insomma, la festa dei becchi è un rischio se non si ha l’anima in pace. Ho trovato un divertente video a riguardo, guardatelo.

Altra cosa che non mi aspettavo di Monterosso e della Liguria in generale è che si beve parecchio: solo nelle Cinque Terre ci sono ventidue produttori di vino, le cui varietà sono essenzialmente tre, il Bosco, il Vermentino e l’Albarola. Se amate bere bene (e sottolineo bene) la tappa fissa è nel centro storico, all’Enoteca Internazionale, gestita con cura e passione dalla famiglia Barbieri, che ne sa davvero a pacchi. Rischiando d’andare in cimbanelle, vista la mia poca resistenza all’alcool ho provato sia vini DOC, come il Begasti, Zuara e Cheo, che vini della tradizione come Terre Sospese o Vetua, concludendo naturalmente con lo Sciacchetrà, il vino passito prodotto preferibilmente con l’uva Bosco. Non solo bere, qui si possono anche assaggiare tutti i prelibati formaggi tipici del territorio, e non solo. Perché dico che sia una tappa fissa? Perché ascoltare i proprietari che ti parlano di vino è davvero un piacere.

A proposito di vino, sono stata a trovare Sebastiano, splendida anima dell’azienda agricola Vetua, a Fuisso, una frazione di Monterosso sul Mare. Sebastiano, un po’ toscano, un po’ siciliano, una di quelle persone che non puoi non abbracciare, spende tutto se stesso in quei terrazzamenti a strapiombo per creare il suo vino che sulla carta non sarà DOC, ma per me è eccezionale. Produzione limitata, Sciacchetrà distrubuito solo nelle annate migliori, etichette disegnate dalla moglie, che è un’artista, per un’azienda che caldeggio di visitare. Come? Mandando una mail a vetuaexoerience@gmail.com.

Dato che Monterosso è un borgo molto ma molto turistico, il primo pensiero che m’è venuto in mente riguardo i ristoranti è stato: “devo stare attenta ai trappoloni per turisti”. Così, grazie al suggerimento di Flavia, una autoctona, ho pranzato da Lapo’s, ed in effetti la scelta è stata azzeccatissima: innanzitutto voglio dire che ho mangiato il fritto, io che non lo digerisco manco per scherzo, ed era divino, poi ho preso del pesce bianco con la crema di avocado, con conseguente scarpetta con la focaccia. Si vede pure il mare mentre si desina, il che non guasta.

Per la merenda l’imperativo è la Pasticceria Laura, che dal 1966 sforna delizie, tra cui la torta monterossina con crema, marmellata e cioccolato, la cui ricetta è purtroppo segreta, ma online si trova qualche suggerimento su come farla a casa. Poi è bella vintage.

 

Di giorno che si fa? Oltre a prendere il sole si passeggia. La prima cosa che si nota all’estremità della spiaggia di Fegina è la statua in ristrutturazione del Gigante che chiude Monterosso. Costruita agli inizi del Novecento dall’architetto Arrigo Minerbi dall’avvocato Pastine, reggeva sulle spalle una conchiglia, che divenne una pista da ballo poi distrutta dalla guerra. Adesso la proprietà del Gigante con villa annessa è del cugino di Montale, poeta che abitò a Monterosso, lungo il litorale di Fegina.
Quindi, dicevo che a Monterosso si passeggia: andando verso il Gigante ci s’imbatte in un vecchio cinema abbandonato (spero che un giorno nessuno osi modificare insegne e scritte) e poi in un sentiero che porta dritti al Convento dei Cappuccini, una sorta di rocca composta e quieta che veglia sopra il borgo. Quattrocento anni di storia, già a quattro anni dalla sua fondazione, vantava dodici celle più gli ambienti comunitari, con orti su più livelli, chiesa e sagrato. Dopo peripezie varie e sgradevoli vicende che tolsero ai frati il convento, adesso è un ombelico per ritiri spirituali sia per credenti che non, come mi assicura Padre Renato. Il chiostro è qualcosa di spettacolare, così come la terrazza sul mare.

Riscendendo ci si può fermare a prendere un caffè in piazza, al Midi Bar, con vista splendidi vecchietti (sapete che non sono ironica su questo) tutti in fila seduti sotto i portici, poi un aperitivo al Bar Bagni Alga, per poi cambiarsi ed andare a cena in un posto più pettinato e con vista mozzafiato, Porto Roca.
Porto Roca è stato l’esempio perfetto di come anche un ristorante elegante e raffinato possa avere del personale preparato e alla mano dai modi non reverenziali (che odio), anzi. Ho mangiato il millefoglie di verdure con scamorza fusa, tartarre di gamberi e mango e chicche di branzino con pomodorino fresco e basilico, per finire con tortino di cioccolato bianco e tris di sorbetti a base di maraschino e ananas, campari orange e mango e tequila. Insomma non mi sono fatta mancare niente. È stato molto romantico vedere calare il sole e Monterosso accendersi, gustando delizie con il personale che si occupa di te, e in maniera appunto informale.

Ad avere la macchina, in una giornata si possono visitare un paio dei cinque borghi della Riviera spezzina, sentieri (a pagamento) non compresi, altrimenti ci vorrebbe una settimana. Io infatti sono stata prima a Corniglia e poi a Manarola, entrambe coloratissime e gremite di gente.
A Corniglia mi sono fermata a prendere un caffè in un posto che m’ha dato la pace necessaria per affrontare poi i turisti inferociti, Terra Rossa, che in realtà è anche un’enoteca-ristorante vista mare, che piacerà sicuramente agli amanti di quelle atmosfere shabby-chic, e che consiglio in primis, infatti, per l’ambiente.

Corniglia è l’unico borgo che non si affaccia direttamente sul mare, ma sta in cima ad un promontorio di circa cento metri; infatti per raggiungere il mare ho scarpinato e non poco. Sicuro chi sta qui e non vuole fare a meno di un bagnetto avrà un notevole culo di marmo.

Corniglia è unita a Vernazza da una suggestiva passeggiata posta a mezza costa fra la vetta e il mare, che però non ho fatto per andare a pranzo a Manarola da Nessun Dorma.
Questo locale è pazzesco, per più di un motivo: è gestito da un ragazzo giovanissimo che sprizza spirito imprenditoriale da tutti i pori, che ha deciso di offrire dei pasti semplici ma genuini, locali e quindi italiani, come ad esempio bruschette al pesto e pomodoro, insalate o taglieri formaggi. Niente pasta o pizza. Scelta azzeccatissima direi. Poi dal Nessun Dorma si vedono le classiche casette colorate di Manarola, ce le hai proprio davanti; certo è che te la devi sudare la vista, dato che, unica nota dolente, per entrare bisogna fare una fila non indifferente. Il pane che hanno è squisito: sempre fresco, con ben dodici ore di lievitazione. Non vorrei mai essere un fornitore del ristorante, dato che tutti i giorni dovrei fare su e giù per portare prodotti freschi…

Altra chicca è che qui si fanno corsi per imparare a fare il pesto: con 50 euro ti prenoti sul sito la tua esperienza e torni a casa a cucinare pasta con la salsetta verde.
Come se non bastasse, c’è in cantiere un altro progetto, aprire la cantina giù nel borgo che una volta era un lazzaretto, e fare degustazioni di livello.
Mi sa che prima o poi dovrò fare il mio business sul food chiamo Simone del Nessun Dorma.

Prima vi ho detto Liguria e sentieri. A Manarola c’è un negozio, Cinque Terre Trekking, che è il paradiso per gli amanti delle camminate e non solo. Realizzato con materiali di recupero e oggetti di seconda mano, da lamiere a porte di barche a tini, è anche una specie di quartier generale dello Sciacchetrail, una gara che prevede 47 km di percorso che comincia da Monterosso, che vuole raccontare in maniera sportiva e genuina il territorio, la comunità, e ovviamente anche la tradizione vinicola. L’obbiettivo è anche quello di far conoscere sentieri che in genere sono pochi battuti e di portare un turismo diverso, in un certo senso più consapevole e appassionato.
L’iscrizione costa 50 euro, ma attenzione, vista l’oggettiva difficoltà della gara, non è aperta a tutti, ma solo a chi ha già un punteggio, ovvero a chi ha già fatto gare.

Come 48 ore in Liguria sono state effettivamente abbastanza piene, ma molto interessanti.
Ringrazio di cuore la Pro Loco di Monterosso per l’ospitalità; di fatti per qualsiasi cosa rivolgetevi a loro, non è gente improvvisata, ma super preparata (pure in rima).

 

 

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