Quell’hotel (non) abbandonato

Quell’hotel (non) abbandonato

Esiste fascino e fascino. Io credo nel fascino dell’abbandonato, del lasciato andare, del momento in cui l’umano si arrende e lascia spazio al naturale, che poi per una misteriosa magia si trasforma (per me) quasi in sovrannaturale.
Amo i luoghi abbandonati. Li amo per un milione e mezzo di motivi, forse il principale è perché sono così, piantati all’improvviso, o per un’urgenza patita o per il suo contrario, una non urgenza tale da allontanarsene distaccatamente, senza pathos.

Era da un po’ che volevo entrare in quell’hotel, ma non l’avevo mai fatto prima d’ora. Un po’ come quando stai a Firenze e dici che vuoi andare agli Uffizi ma non ci vai mai, o quando sei in Duomo e dici di voler salire su ma non c’è verso di passare dalle parole ai fatti.
Quell’hotel è in un posto in Veneto, e non c’entra nulla con la foto sopra; per qualche strano motivo il mio cervello è andato a ripescare una vecchia foto scattata a Catania.
In quell’hotel c’è scritto “vendesi” all’ingresso. Pare non tanto abbandonato quanto abitato da soli fantasmi, dato che ha sempre una tenda che sventola lisa un po’ fuori e un po’ dentro ad una finestra aperta. C’è solo una finestra aperta.
Mai vista anima viva là dentro, anche perché per un po’ l’albergo è stato impacchettato da un nastro bianco e rosso, a significare insomma, che lì non si entra. Per me invece l’impacchettamento significava solo “sorpresa”.
Mi ero imbastita tutte le storie più romantiche in testa. Mi ero fatta anche tutte le storie meno romantiche. Diciamo che sarebbero stati due racconti con lo stesso incipit, ma con svolgimenti e finali diversi.
La versione della gente del posto era invece più o meno la solita: là dentro abita un pazzo, là nel suo vecchio hotel abbandonato.

L’ennesimo giorno di fregola spropositata nel volere entrare e parlare con quel famoso pazzo, c’ho fatto il mio ingresso. Abbiamo fatto il nostro ingresso.
“Cosa diciamo?”
“Come entriamo?”
“Sarà pericoloso?”
Diciamo la verità, entriamo per le scale, e no, non dovrebbe essere pericoloso.

Contrariamente a quanto avrei fatto in mille altre occasioni, ho prima googolato nulla in merito all’hotel, sono entrata e basta.
La hall in disordine, importante odore di pipì ovunque, sporco, mobili come se spostati all’improvviso da una donna delle pulizie che non ha mai pulito, sulla sinistra un signore di una certa età con i pantaloni della tuta invernali, seduto su una coperta pesantissima, faccia diffidente e imbronciata a guardare un gatto rosso attorcigliato sul tavolo difronte. Accanto a lui croccantini, fogli sparsi, ciabatte di pile.
Molte persone arrabbiate adorano stare con i gatti.

Il signore ci chiede chi siamo e cosa vogliamo.
“Vogliamo sapere la storia dell’hotel”.
“Ci sono troppe tasse, qui c’è la mafia!”
Ad un certo punto spunta una donna sudamericana con un telefono insistentemente squillante in mano dicendoci che l’hotel ha 70 anni, poi si rivolge severa al signore dicendogli di rispondere alla chiamata.

Da questo momento credo che lo spirito di Beckett sia sceso in terra per dirigere una commedia, perché nella realtà vera, non assurda, certi dialoghi non esistono.
“Rispondi, senti cosa vuole”, lei.
“No, se non ha soldi non ci vado. Sto male”, lui.
“È all’ospedale lì a fare che?”, lei.
“Non mi interessa, io non la guido la macchina”, lui.
“Magari ti da soldi”, lei.
“Sto male, vaffanculo”, lui.

Il telefono continua a squillare, ogni tanto la donna risponde e mette il dispositivo all’orecchio dell’uomo che continua a blaterare cose assurde con lei, ma (forse inconsapevolmente) con la bocca rivolta al misterioso interlocutore telefonico.

Non so perché, ma all’improvviso mi viene da dire: “Dov’è il gatto?”
“Avete fatto confusione, a lui non piace la confusione, se ne è andato”.
Poi mentre il telefono continua a squillare ed entrano degli ospiti (entrano degli ospiti???), prosegue il suo monologo dicendo che nella sua valigia, una sorta di ventiquattrore, c’è il suo armadio, e che lui vive su quel divano nella reception, che le tasse lo hanno stroncato, che nei parcheggi ci sono davvero troppe macchine, e negli hotel i letti a castello.

Sbuca poi un’altra donna, che ci saluta, e da qui il putiferio.
“Ve ne dovete andare! Chi siete? Che volete?”
E quindi via, a calci in culo fuori da quel letamaio.

Mi domando se quella in realtà sia una casa chiusa.
Un luogo di spaccio.
Un hotel chiuso dalla ASL, per forza, ma gestito ugualmente da un vecchio signore arrabbiato che si scopa una sudamericana che gli sta attaccato addosso come una cozza solo per la ricca eredità.
Io gli ospiti gli ho visti davvero.
Esco e non resisto, così googolo. Quell’hotel è attivo, ha un numero di telefono e delle recensioni su google, non su tripadvisor. Recensioni ovviamente degne di un film dell’orrore o del peggior incubo di ogni vacanza.

Rimango infastidita per l’accaduto, e me ne sento in colpa, perché in teoria sarei dovuta dispiacermi nel vedere un vecchietto vivere così. Invece mi verrebbe solo da spaccargli la faccia. Per ospitare delle persone, inconsapevoli, lì in vacanza che si trovano l’odore di piscio ovunque, la sporcizia, i litigi assurdi di due persone la cui relazione non è ben chiara.
Ho pensato che certe volte il fascino dei luoghi pseudo abbandonati debba rimanere così, idealizzato, mitizzato, lontano. Che forse la curiosità non paga sempre, perché certe romantiche congetture rimarrebbero tali solo con l’ignoranza, o l’immaginazione, a seconda dei punti di vista.
Ho pensato di chiamare la ASL, ma non l’ho fatto, così come credo anche altre persone, mettendomi così il bollino di italiana doc, quella che denuncia ma non fa un bel niente.
Ho pensato che quando avrò tempo e mi finirà lo scoraggiamento per la situazione editoria italiana, questa storia deve finire dritta nel mio secondo romanzo. Sempre che mi passi lo scoraggiamento.

 

 

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