Le Coq Sportif: chi ci mette le mani, altro che faccia

Le Coq Sportif: chi ci mette le mani, altro che faccia

Era il 1939, e Le Coq Sportif lanciò la tuta come “vestito della domenica”.
Io sono nata negli anni Ottanta e in quegli anni lì valeva la stessa cosa: la tuta te la mettevi o per la scuola, nel giorno di Educazione Fisica, o la domenica come “secondo look” per stare comoda. Il primo era un più pettinato outfit caratterizzato da calze bianche lucide, ballerine e gonna a ruota, meglio se con del tulle sotto, per andare alla Messa, fare il giro in centro e poi arrivare dalla nonna, dove mi sarei cambiata per stare più comoda.
Dalla fine degli anni Novanta fino ad adesso la tuta rappresenta uno stile da sfoggiare tutti i giorni, e se si è davvero trendy persino con le scarpe non da ginnastica. Mel C ci ha creato un personaggio, mentre le squinzie di adesso con l’orecchino al naso, il collarino di velluto e la bocca sempre semi-aperta ci hanno costruito il concetto di “diversamente sexy”.

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Parigi, dicembre 2016. In uno dei negozi Le Coq Sportif di Parigi, quello in rue Tiquetonne, vedo due tute che per me sono semplicemente dei look che vorrei nel mio armadio: la tuta rossa, che in memoria di Wes Anderson sfoggerei sentendomi in un (bel) film, e quella blu, che catapultandomi letteralmente negli anni Settanta, mi renderebbe nostalgica, quindi felice.
Direi che Le Coq Sportif è un marchio nostalgico, anzi direi che è il mio marchio, visto che c’è dello sport e del “vecchio”. Dunque quando sono stata invitata a vedere le fabbriche di produzione vicino Parigi e i negozi di Parigi ho fatto i salti di gioia.

Comincio col dire che l’elemento che ammiro maggiormente di questa azienda è che è stata capace di mantenere le proprie radici, rispettare le proprie tradizioni e valori, non rimanendo ancorata ad un passato che risulterebbe obsoleto, bensì innovando con la testa.

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 Un esempio di codesta innovazione è l’Atelier du Coq (vedi video), che rappresenta un punto d’incontro tra passato e modernità, ovvero una specie di mini laboratorio messo in vetrina, presso il quale si possono personalizzare le proprie felpe con delle stampe o delle lettere a formare parole a scelta, proposte in una specie di catalogo disponibile in negozio. E a personalizzare non è un vecchietto, ma una bellissima e giovanissima ragazza, che t’invita a scegliere disegno e colore, per poi occuparsi dell’intera operazione.
Per quasi ovvi motivi io ho scelto una stampa vintage con una silhouette che si tuffa.

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 Il centro di produzione dei tessuti, a due orette di treno da Parigi, Sainte-Savine, è un’immersione in un mondo costituito da ferro, filati e persone che fanno quei lavori che non ti capita spesso di vedere fare, tipo il controllo qualità.
Il signore che ci ha accompagnato nel tour alla scoperta della costruzione di un tessuto è stato nella descrizione dei mestieri all’interno della fabbrica preciso quanto un chirurgo ad operare: “questo è il piqué, e così è esattamente come si fa”.
(Anche se credo che nessuno di noi abbia esattamente capito al 100% tutti i passaggi).
La suddivisione dei compiti e la scansione del tempo sono due elementi che necessitano un’attenzione tale che mi hanno fatto capire che io non ne sarei proprio in grado. Tipo: l’operaio che appunto controlla la qualità del tessuto si deve piazzare davanti un rotolo di tessuto, illuminato da una di quelle luci da studio fotografico che ti pialla ciascuna ruga del viso, e controllare centimetro per centimetro se il tessuto sia liscio, ruvido, con qualche malafatta o meno.
Insomma, in una fabbrica tutto è estremamente preciso, per questo la combo uomo-macchina è fondamentale: dove fa cilecca l’uno c’è l’altro.

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 Nel Centro di Ricerca e Sviluppo di Le Coq Sport, a Romilly-Sur-Seine, le cose sono un tantino diverse (vedi il video): lì si studiano le caratteristiche del tessuto, ovvero se è abbastanza resistente, come reagisce al lavaggio, se fa “i peletti”, si stampa (direi che è la parte più suggestiva), e si fanno sia i prototipi che la produzione stessa di ciascun capo. Definirei favolosa la schiera di sarte, capace di cucirti in pochissime ore una perfetta giacca strutturata.
“Queste sono le maglie per il Saint-Etienne”, ci dice orgoglioso il responsabile della produzione, e vedendoci colpiti ma non così soddisfatti, aggiunge quel pezzo della storia che vedeva Maradona con la maglietta biancazzurra. Allora sì che gongoliamo tutti.

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 Il punto è che io una maglia da calcio Le Coq Sportif me la metterei sopra una gonna da tennis, e anche una da bici (vedi il post sul Tour de France) sopra un paio di jeans, le indosserei proprio tutti i giorni, altro che.
In tutto ciò, oltre alla voglia di comprarmi qualsiasi capo, la cosa che mi ha colpito di più è stato il fatto che tutte queste persone che lavorano in fabbrica si dimenticano del cellulare per concentrarsi unicamente sul proprio lavoro.
Ho provato molta invidia per la signora addetta alla stampa, per il ragazzo addetto al taglio dei cartamodelli, e per le sarte: nessuno di loro ha mai fatto cenno di voler sfoderare quell’aggeggio infernale dalle proprie tasche. Nessuno.
A dire la verità ho provato invidia anche per me stessa, nel senso che mi sono resa conto di essere stata davvero fortunata ad essere lì, a vedere come funzionano le cose a priori, a parlare con chi mette davvero le “mani in pasta”, gente che non è per nulla interessata a metterci la faccia, ma solo la testa e le dita.

P.s. Invidia anche per chi lavora negli uffici di Le Coq Sportif a Parigi, dato che dalla terrazza all’ultimo piano gode “solo” di questa vista, quella delle scale compresa:

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