Non mangiavo pasta all’uovo dal ’94

Non mangiavo pasta all’uovo dal ’94

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A Milano si stava bene. Splendeva il sole e con la giacca invernale faceva quasi caldo.
Milano Nord.
A Milano Sud si cominciava a stare non benissimo. Il sole aveva deciso di pigliare le ferie e il cielo pareva la metafora della pentola della strega cattiva di Fantaghirò, un discreto garbuglio di fumi grigi.
Usciti da Milano il sole aveva pensato che forse sarebbe stato meglio andare direttamente in letargo, la nebbia che finalmente avrebbe potuto prendersi il suo momento di gloria, e il freddo vincere a “Uno” contro il caldino.
Tuttavia no, il quadro non era affatto male, anzi; per me amante del grigio e di tutte le sue sfumature il passaggio termico, cromatico e anche paesaggistico ha rappresentato una sorta di suggestiva evoluzione apprezzabile nonostante i miei dannati problemi agli occhi, che dopo un tot di vento cominciano a farsi di LSD e farmi vedere i draghi.

Andiamo a Zelata, un posto cullato dalla nebbia, raggiungibile grazie ad una strada sospesa tra i campi, in una di quelle trattorie con le insegne che garbano a me, vecchie.
Dentro un caldo boia, le pareti gialle, i tavoli di legno, e tanti capelli grigi.
Una di quelle trattorie con naturalmente il menù carnivoro, e con una sola scelta vegetariana, la pasta di segale con le verdure, che ho scelto.
Non mangiavo pasta all’uovo dal ’94, credo, ma odio essere una di quelle che non mangia carne e che rompe le palle sul fatto che per “noi” non ci siano mai abbastanza alternative.
Una di quelle trattorie di famiglia che vede sempre il papà del proprietario trotterellare tra sala, cortile, tavoli, e cucina, salutando frettolosamente tutti perché lui c’ha da fare.
Il signor Carlo, il babbo, l’ho conosciuto alla fine, cappellino della Champion e camicia di cui non ricordo la marca, ottantaquattro anni benedetti da Gesù Cristo e la Madonna e ben annaffiati di vino bianco e Spirito Santo.
“Bella camicia signor Carlo”
E m’ha detto la marca, aggiustandosela.

Con i suoi passettini rapidi e piccoli, aiutati da un remare coordinato delle braccia, m’ha portato a fare il tour del ristorante e non solo. Sbattute rapidamente le mani sul grembiule, dopo aver pulito i funghi, m’ha portato a vedere gli orti, la legnaia, la vecchia ghiacciaia dove adesso c’è un magazzino e persino la casa nuova del figlio.
“Entri pure”
Io, il signor Carlo come un agente immobiliare in una casa che pareva dovessi acquistare io.
“Sa che io ho sempre viaggiato da solo e in bicicletta? Mia moglie non mi ha mai voluto seguire, quindi sono sempre andato per conto mio”
“Mi deve fotografare? Faccia pure”
E così feci. Feci anche un video.

Riprese le moto (e sempre schivato il nemico numero uno, l’autostrada), passando tra campi e pecore, su vie come se fossero sospese, siamo arrivati al ponte delle barche di Bereguardo, alias un perfetto set fotografico, visto il suo essere paradossale, ovvero un ponte con sotto pochissima acqua costruito sopra delle barche fisse. Credo che se un ponte si potesse vestire da Carnevale si vestirebbe così.

Siamo tornati a casa con dietro l’angolo il nemico numero due per i miei occhi, che hanno così avuto tempo di rifarsi di LSD e farmi vedere le luci une e trine, il buio.
Sono tornata a casa con la netta convinzione di aver bisogno di un casco integrale, una bolla, una marmitta nuova, delle borse da mettere sulla moto e di viaggiare di più, molto di più (in moto).

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