Thanks to la mi’ nonna in cariola con le mutande viola

Thanks to la mi’ nonna in cariola con le mutande viola

Quando aprì il primo blog nessuno mi considerava, o meglio, la gente mi prendeva in giro perché mettevo in piazza i fatti miei. Il mio blog si chiamava “Barbie Lucy”, era su Splinder, ed io ero appena maggiorenne.
Quando aprì il mio secondo blog, che nacque come fashion blog (blasfemia!), tutti erano tra lo scettico e l’entusiasta (ricevevo inviti perfino da Gucci e da Armani, allora); nel momento in cui i giornalisti, le giornaliste, cominciarono a capire che noi bloggers per loro (e io all’epoca collaboravo pure per riviste, quindi ero un ibrido) rappresentavamo un mezzo di ostruzione alla loro scalata verso lo scroccare viaggi, vestiti, prodotti di bellezza e prime file ai fashion show, iniziò il bordello.
Che evidentemente non è ancora finito, e ogni tanto torna. Anche perché certe bloggers guadagnano molto di più di certe giornaliste.
Ho scritto molto, moltissimo, a riguardo; adesso spenderò altre, le ennesime e identiche parole, dato che s’è scatenata l’ennesima polemica tra giornalisti, quelli “intelligenti, intellettuali, quelli seri”, quelli di Vogue.com, contro bloggers, quelle ragazzette ormai manco più tanto giovani, sceme, senza talento ed esibizioniste. Quelle come me, insomma.
Bla bla bla.

Sally Singer, creative digital director, ha detto questo: “Bloggers che cambiate outfit dalla testa ai piedi ogni ora: per favore smettetela. Cercatevi un altro lavoro. State proclamando la morte dello stile”.

Cara Sally, non hai mica tutti i torti. Tutti sanno cosa ne penso di quelle/i che si cambiano tre volte al dì per mettersi fuori dagli show ed elemosinare scatti, per poi il giorno dopo auto-pubblicarsi e recitare la fila di ringraziamenti: “thanks to The Sartorialist, thanks to Adam, thanks to Andrea, thanks to la mi’ nonna in cariola con le mutande viola”.
Se solo si auto-pubblicassero senza rosari ringraziamenti farebbero una figura migliore, dato che sono loro a piazzarsi davanti agli obbiettivi, quindi sono i fotografi che dovrebbero ringraziare loro per alleggerirgli il lavoro.
Se solo restassero con lo stesso look dalla mattina alla sera almeno darebbero l’impressione di andare a fare qualcosa di socialmente utile. Che ne so, andare fuori dalle sfilate per fare ricerca, per fare foto, per vedere gente, e invece no, vanno lì per pubblicare le proprie immagini il giorno dopo su Facebook. Che andrebbe bene, se fosse un fenomeno naturale.
Dicono che lo streetstyle funzioni ancora: ti rende più popolare, ti aumenta i fans, i likes, tutto. Lo streetstyle sarebbe una figata se fosse qualcosa di spontaneo, ma è più costruito delle tette della Nasti.

Le vedete queste foto? Le ho fatte sotto casa di Anjeza durante la fashion week, senza andare alla fashion week, (ho fatto solo cinque presentazioni e una sfilata – in Vans). Mi sono messa i tacchi solo per scattare, senza pretendere di dire “on my way to Gucci vestita così”.
Io la chiamo (ironicamente parlando) #vitavera.
Mi hanno mandato in prestito questo splendido vestito che ho scelto io, è di Quattromani, c’ho messo insieme un foulard che hanno regalato ad Anjeza come cadeaux ad un evento, e una giacca Benetton. E ho fatto le foto per dare la mia interpretazione di stile. Prima sotto casa, poi sul blog. Fine.
La mia #mfw è stata tra un giardinetto e dei murales lungi dai siti preferiti dai pagliacci.
Non ho dovuto nemmeno spingermi oltre, fuori dalle sfilate, per andare a lamentarmi di essere stanca morta per essermi cambiata un solo vestito – che sfigata –  in tutta la giornata. E poi, tesoro, è così fuori moda ormai, da blogger, lamentarsi per il delirio da fashion week.

È anche vero, cara Sally, che te di colleghi marchettari, quelli da thanks Prada, Gucci, la mi’ nonna in cariola con le mutande viola, ormai ne hai a bizzeffe, e di questo credo tu ne sia consapevole. Ed è vero, come dice velatamente Susie Bubble, una fashion blogger vera e di talento, che di cazzate voi giornalisti seri ne dite tante su certi brand solo perché sganciano soldi, quindi non vi cambierete cento volte d’abito (ma due, a volte sì), ma cambiate cento volte idea dicendo che un marchio prima è figo e poi no, solo perché prima paga e poi no.

Nicole Phelps, Vogue Runway director, ha buttato del fuoco (per non dire merda) anche sulle aziende: “Non è solo triste per le donne che si pavoneggiano davanti all’obiettivo indossando abiti in prestito. È angosciante vedere così tanti brand collaborare”.

Sì Nicole, è molto triste vedere certe donne pavoneggiarsi, io sono sempre fan della spontaneità ad ogni costo, ed è anche angosciante vedere certi brands collaborare, perché certi brands danno vestiti a bloggers finte, ovvero con i fans comprati o a bloggers sbagliate, ovvero non in target con loro.
Magari potrei consigliare a certe aziende, certe PR, di consultare certi siti, credo che Social Blade sia abbastanza affidabile per capire chi compra e chi no, ovvero chi vi incula e chi no.
Tuttavia, cara Nicole, i tempi sono cambiati da un bel pezzo. I vestiti delle sfilate non se li mettono più solo le modelle, ma anche le persone normali, tipo me, e li indossano facendo vedere al mondo che “hey, questo vestito sta bene anche ad una persona normale”, che “ah, questo abito può stare così? Allora quasi quasi…”. E magari ci scrive pure un pochino più di tre righe.
E i tempi sono cambiati anche perché viviamo nell’epoca del Grande Fratello e di Facebook, e tutte, giornaliste, blogger e idrauliche, vogliamo far sapere al mondo cosa facciamo e che siamo più fighe delle altre. È normale, ormai. Anche te, sai.

Alessandra Codinha, Vogue.com news fashion editor, ironizza sul fatto che ormai poche bloggers sono tali, ma che bensì si limiterebbero a posare e a rendersi ridicole tra le prime file, controllando in continuazione i propri social network.

Alessandra, non posso controbattere nulla. Hai proprio ragione.

Detto questo, le bloggers esistono, certo (dovrebbero essercene più come Susie Bubble, Leandra Medine e Pandora), e si cambieranno sempre cento volte al giorno durante la fashion week. Purtroppo questa è la realtà. Non fanno male a nessuno, ovviamente, e possono farlo se questo le aiuta ad accrescere la loro personale visibilità. Io non lo farei mai e non lo capisco, ma mica siamo tutti uguali.
Cioè, se questa cosa le fa stare bene gonfiando le loro personalità o in altri modi che non so, lasciamole in pace.
Quello che predico da anni è che accanto all’immagine ci sia sempre del contenuto, che vuol dire anche quelle due righe su Instagram che non siano un cuore e una faccia che sorride, anche se, siamo obbiettivi, quelle che fanno i soldi sono quelle che ci mettono tette, culo, zero righe e due cuoricini rosa.
Ma a me, come sempre, frega una beata mazza.

Ed ora le marchette da poser (cioè nessuno di questi marchi mi ha pagata, ho scelto io i pezzi in prestito):
Abito: Quattromani
Occhiali: Kyme sunglasses
Giacca: Benetton

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