Tanto adesso c’è Spotify

Tanto adesso c’è Spotify

Tema
I giovani d’oggi non sanno più aspettare perché non sono mai stati ore immobili davanti alla radio attendendo quella canzone per premere REC

Svolgimento
Ho trovato questa frase online, era scritta su una banconota da venti euro.
Una volta avrei detto: “ho trovato questa frase al baracchino della signora delle caramelle stantie e dure come il sasso spicco della Verna, era scritta sulle mille lire che mi ha dato di resto, ed erano pure attaccate insieme con lo scotch, per questo gli ho fatto storie nell’accettargliele. Perché poi se vado da Piero, il giornalaio, a comprare le figurine o qualche altra rivista solo per il poster, di Nick Carter, da non confondere con Nek, è da sfigate quello, anche perché è italiano, sicuro non me li accetta, cagacazzi com’è.

Non vedo una banconota scritta da tempi non sospetti, purtroppo. Non c’è foglietto da cinque euro che non sia dannatamente verde e basta. Manco una pseudo traccia di penna fucsia al sapore di tuttifrutti, o viola alla mora. Niente.
Eppure i treni sono ancora imbrattati, i muri ancora disegnati (se male m’infastidisco troppo), c’è perfino qualche rimasuglio di panchina incisa con il taglierino (quella cosa inutile per tagliare i fogli in due, ma utilissima per scrivere cose tipo “Marco ti amo” sull’ultimo banco di scuola, per chi non l’avesse mai usato nell’epoca scolastica), ma sui soldi c’è apparentemente un profondo rispetto. Nonostante la gente li sprechi.
C’è del contro senso e della discriminazione.
Non sto dicendo che bisogna sporcare il denaro, o forse sì, ma come avviene con i muri, i treni, le case, se le cose sono impataccate bene sono poetiche, fonti di spunto, belle da vedere o da leggere.
A Milano infatti m’è garbata un sacco quella cosa di fare disegnare a certi artisti di strada quegli armadietti (io li chiamo armadietti, perché non so come si chiamino) dove dentro c’è un traffico di cavi coloratissimi dell’elettricità che manco in India nell’ora di punta.

E insomma niente, non si scrive più. Né sulle banconote, né su carta di block-notes, nulla. Solo sui post-it a patto che siano a forma di cuore o di gatto, o che comunque siano “strani”.
L’ultima scritta davvero scritta che ho visto e che mi è rimasta impressa era su una strada al Tour de France, diceva: “FORZA NIBALI”, in gigante. Tipo che se fossi stata Nibali avrei sposato l’autore o autrice in seduta stante, uomo o donna che sia.
L’ultima scritta scritta per finta che ho visto comprende K e omissioni di vocali, tutta su supporto tecnologico ovviamente. Lascio immaginare la non poco profonda mestizia nel constatare ciò.
E oltre a questo, come ha scritto il tipo o la tipa in corsivo (e già che non sia in stampatello è una conquista), i giovani non sanno più aspettare perché non hanno mai provato a piazzarsi davanti ad una radio rossa con due casse che parevano gli occhi di Orko, per beccare il momento in cui Fiorello cantasse “San Martino” e registrare la tua canzone del cuore.
Quante diamine di volte “La nebbia agli irti colli piovigginando sale” è diventata “rti colli piovigginando sale”, dio solo lo sa. Mica era una passeggiata cogliere l’attimo.
La volevamo per il gusto di averla, impararla a memoria, e magari studiarci su qualche balletto che non fosse copiato da Madonna o Beyoncé, ma semmai ispirato a qualche coreografia di Lorella Cuccarini o Heather Parisi.
Sapevamo aspettare, perché sapevamo anche che prima o poi il momento giusto sarebbe arrivato.
Adesso il momento giusto ci pare talmente sfuggente che manco facciamo fatica a provare ad arraffarlo. “Tanto dopo ce ne sarà uno migliore sicuro”.
Così sicuro che sempre quello dopo ci pare migliore e ci perdiamo un bordello di roba. E di gente.
Ci perdiamo valore, anche umano, santiddio.

Sapevamo aspettare le quattro del pomeriggio per uscire, senza stare a chattare fino alle quattro, quando poi appunto uscivamo. Semmai telefonavamo, ma a volte il telefono era sotto controllo, perché costava un sacco, quindi prima delle quattro o giocavamo con le bambole, o attaccavamo degli oggetti a dei fili per farli poi penzolare dalla terrazza e (credere di) impaurire la gente, o ballavamo, o c’era sempre il gioco delle commesse. C’era della creatività, oltre che della pazienza.
Sapevamo aspettare il sabato quando usciva il giornale con in allegato lo stesso rossetto chimico che c’era identico spiccicato all’Oviesse, eppure quello del giornale ci pareva più bello.
Sapevamo aspettare le cartoline, e fare la fila alle cabine per chiamare e dire che “qui tutto bene”. E basta. Che poi nelle cartoline alla fine c’erano scritte sempre le stesse cose a seconda dell’età: le nonne e le zie scrivevano cose tipo “Tanti saluti da Rimini, con affetto nonna Ida” (tipico nome da nonna), mentre le ragazzine scrivevano poemi, a volte con penne colorate e disegnini che scimmiottavano le moderne emoticon, che narravano la cronistoria della propria vacanza, incontri di ragazzini inclusi, certe che mamme e papà non avrebbero mai letto nulla, solo perché il nome nell’indirizzo della cartolina non era il loro.
Non che appena arrivati da qualche parte, s’attivava la ricerca ossessiva-compulsiva del wi-fi, dodici whatsapp in un colpo solo e ventidue chat con trenta amiche per raccontare che la vicina di stanza tedesca si è fatta la pasta con l’ananas e il mais con la marmellata. Anzi, non si aspettava proprio niente, solo di trovare la cartolina giusta, con qualche neonato tenero e due girasoli in capo, o qualche panoramica notturna o diurna di città.
Sapevamo aspettare il nostro turno in fila. Mica come ora che si ha sempre da fare qualcosa di urgente e irrevocabile dopo.
Sapevamo aspettare il pollo della domenica di Corrado, in via Madonna del Prato, che a pulizia non era il massimo, ma a bontà sì, eccome.
Il paio di pantaloni da Cherie, non che “tanto lo compro online”.
Le pesche della Rosanna, che prima o poi sarebbero arrivate dalla Romagna.
Il nuovo zaino della Best Company, ordinato direttamente per te in azienda.
Il sotto di Miriana di Non è la Rai, perché di figurine del pezzo sopra, il busto, ne avevi addirittura tre. Quindi manco doppioni, triplioni.

Ma adesso tanto c’è Spotify.

 

 

Comments are closed.
  1. giulia

    21 August 2016 at 7:03

    Verissimo e nonostante trovi l’utilità della velocità di whatsup e email io ancora chiedo-ricevo-cerco-mando cartoline e lettere scritte a mano…sarà che qualunque cosa richiama il passato mi affascina:D