La (apparentemente) pazza gioia

La (apparentemente) pazza gioia

Così come la frase il fine giustifica i mezzi è tutto quello che sappiamo di quel toscanaccio di Machiavelli (anche se spesso ignoriamo che si scriva con una “c”, e non con due), il velo di Maya rappresenta tutto lo scibile su Schopenhauer. Sono quelle nozioni base, che per un mistero, piuttosto che per un altro, ti rimangono ben impresse sulla mente, tra la fiumana di rudimenti buttati come sabbia in faccia da tizi o tizie con gli occhiali sulla punta del naso, alle Scuole Superiori.
Quando ho finito di versare l’ultima lacrima, all’ultimo gradino del cinema Arcobaleno, quasi davanti alla mia bici che nel frattempo faceva l’amore con un ferro vecchio grigio e rosso, ho pensato proprio a quella frase, tra l’altro pare mai formulata da Machiavelli: il fine giustifica i mezzi.

La pazza gioia è innanzitutto un film dal titolo geniale, che contiene in sé un doppio significato: le protagoniste, Micaela Ramazzotti e Valeria Bruni Tedeschi, sono considerate “pazze”, e le pazze insieme compiono una serie d’azioni più o meno rocambolesche alla ricerca della felicità, da individuare evidentemente tramite qualcosa di folle, come rubare una macchina e scappare a gambe levate, o andare in un ristorante di lusso e non pagare, per poi arrivare alla normalità più assoluta che rappresenta, paradossalmente, la gioia.

Quando il film è iniziato ho alzato gli occhi al cielo, pregando che non fosse quello che poi grazie a dio non s’è rivelato: una strana combo tra Ovosodo, ma senza quel figo di Marco Cocci, e Il Ciclone, con una serie di personaggi toscani che interagendo fra loro fanno ridere, soprattutto perché toscani. “Oh no”, ho pensato”.
Poi è bastato quel reggiseno in vista dal vestito elegante di Beatrice, Valeria Bruni Tedeschi, dotata di ombrellino anti-sole e carisma da moglie del premier a Povto Cervo a farmi tirare un sospiro di sollievo e a rilassare i muscoli della schiena.
La Bruni Tedeschi è la vera stella del film, una diva rinchiusa, che pur non brillando più, socialmente parlando, continua a brillare di luce propria, in tutta la sua bellezza, tragicomica follia e genialità. Lei che ci gongola nel suo essere snob, che gode a impartire ordini agli altri, lei naturale leader, a cui tutti, per motivi non ben chiari, danno ascolto, lei che pare una dea in tutta la sua decadenza, lei che la povertà non la vuole comprendere, lei che aborra la volgarità (fa schiantare la frase rivolta alla Ramazzotti riferendosi ai suoi tatuaggi: “compriamolo un quadernino eh”), lei consapevolmente illusa e per questo apparentemente mai delusa, lei buona nonostante “cattiva”.
Così come Donatella, la Ramazzotti: è proprio questo il primo elemento che accomuna le due donne, il fatto di essere buone, ma cattive; anche Donatella ha in passato fatto del male al fine di fare del bene (e da qui il concetto di bene soggettivo).

Donatella ha comunque una follia diversa da quella di Beatrice, più consapevole, più nera, più palesemente disfattista, e ciò è forse legato all’età più giovane. Impaurita dal mondo, con una visione iperbolicamente distorta del padre, che crede un dio, quando invece è un senzapalle, rappresenta prima il traino di Beatrice, per poi esplodere e trainare lei stessa.

Vittorio Gassman e Jean Louis Trintignant, in una foto di scena del film " Il sorpasso " di Dino Risi,( 1962). Compie oggi 80 anni Jean-Louis Trintignant, l'attore piu' riservato del cinema francese che ha scritto le pagine piu' gloriose della storia della settima arte in quell'epoca d'oro delle coproduzioni tra Francia e Italia. ANSA
L’idea del film è che, pur essendo ambientato in un’epoca ben precisa, sia senza tempo; tra scene che ricordano Il Sorpasso e Bonnie e Clyde, la ricerca di qualcosa di sempiterno, la felicità, è sospesa fino alla fine, quando si chiude il cerchio: la corsa spasmodica verso qualcosa d’indefinito si cheta nel concetto di calma, di comprensione che la gioia stia proprio lì, nell’accettazione del proprio essere, nell’integrazione in una comunità, e soprattutto nell’amicizia.

La pazza gioia è il film dell’amicizia, di due donne diverse, una è una sorta di Monica Vitti, una diva logorroica dal tono stanco e dall’eleganza innata, mentre l’altra è un personaggio moderno, anni Novanta, come appena uscito dal video degli Smashing Pumpinks “Try, try, try”, che tuttavia ha sempre nelle orecchie un pezzo di storia degli anni Ottanta, “Senza fine” di Gino Paoli, ad allietare le sue giornate.
La scelta musicale è azzeccatissima: cosa mettere in un film di disperazione velata di comicità, in cui i ritmi, anche quando sono lenti, sono comunque veloci? Un po’ come in Requiem for a Dream: metti una musica paradossale, in questo caso romantica, nostalgica, lenta.

I piani temporali s’intersecano, fluttuano, si confondono, per palesarsi in scene dalla fotografia esemplare come quella delle due donne stese l’una sopra l’altra vestite con costumi d’epoca malconci davanti a una spiaggia toscana, di notte.

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E qui si apre il vaso di Pandora dei ricordi: “Onde” di Fabio Genovesi, il Seven Apple e le macchinate da Firenze, la bellissima Iris che faceva la cubista, le albe macinate a cornetto e cappuccino, la collezione da me mai gradita di ragazzi in camicia con le iniziali, gli incidenti, le signore con le zeppe e lo smalto perfetto ai piedi e alle mani, la bipolarità dei toscani, gli ombrelloni che in realtà sono tende da giardino.

Questo è un evidente e metaforico dito medio alzato nei confronti di quelli che dicono che in Italia si sfornino film mediocri.

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Comments are closed.
  1. Francesca Bianchi

    25 July 2016 at 16:19

    Chiedo scusa, va bene che i concetti le sono rimasti impressi nella mente, ma forse non abbastanza. Il velo di Maya e’ un concetto di Schopenhauer, non certo di Kant! Fossi in lei eviterei proprio di scomodare la filosofia in questo genere di blog. Così eh, come suggerimento.

    • Lucia

      25 July 2016 at 16:34

      Sì, ho fatto un errore, la ringrazio vivamente per la correzione. Tuttavia, dato che siamo umani, liberi di parola e padroni del proprio grado di alfabetizzazione, continuerò a citare chiunque io ritenga opportuno, anche perché ritengo ottuso parlare o solo di cose “stupide”, o solo di cose “intellettuali”. E se sbaglio non credo venga giù il mondo. La ringrazio ancora per la puntualizzazione.

  2. Francesca Bianchi

    25 July 2016 at 16:52

    Non si agiti.
    Anche ora che ha corretto c’è un errore. Schopenhauer non si scrive così.
    Vuole assumermi come editor? 😉