#shewears: sulle femminili intersezioni apparentemente monadi

#shewears: sulle femminili intersezioni apparentemente monadi

Spogliatoi della piscina. Mi stavo asciugando quei tre capelli che mi sono rimasti in testa, e nel frattempo, come ogni tanto capita, butto un occhio, dallo specchio allo schermo del televisore sopra la vetrina dei costumi, dove c’è fisso Sky News. Leggo a grandi linee, stacco lo sguardo e mi ricordo solo parole forti: “Donne, Isis, violenze, stupri”.
Volto veloce gli occhi allo specchio, mi fisso così tanto nelle pupille che riesco a rendere concreti perfino i miei pensieri: un’insalata amara di odio, pietà, impotenza e amarezza.
Siamo nel 2016 e ancora non c’è giustizia per chi ha una vagina. E non c’entra, specie qui, il fastidiosissimo discorso “perché se vai in giro vestita così ovvio che te le cerchi”.
Ancora alcuni considerano le donne come un oggetto, ancora io non mi sento libera di rincasare da sola di notte, ancora non siamo come gli uomini. Pare incredibile che in un mondo così troppo evoluto, ci siano delle tali falle di “involuzione”.

Voglio arrivare qui: a dire che non sono una femminista pazzoide, ma una donna, che l’8 marzo era la Festa della Donna, ed io ero fieramente a festeggiare questa ricorrenza, che come il San Valentino è di moda dire essere una cazzata, con Eastpak, che mi ha chiamata per far parte del bellissimo progetto #shewears, dedicato, appunto, a certe donne con qualcosa da raccontare.

Ho aperto io le danze, prima esponendo la mia vita direttamente sul canale Instagram di Eastpak, e poi presentando me e Penelope, la protagonista del mio libro, Quella certa dipendenza dal tasto invio, nel negozio Eastpak di Milano, ad un plotone di venti donne bellissime e intelligenti.
Va da sé intuire che il mio look non è stato casuale, cioè la mia scelta di mettermi giacca, cravatta e tacco dodici, voleva ovviamente essere una provocazione.
Così ho raccontato del mondo bipolare di Penelope, una donna moderna, trentenne, che vive tra un Whatsapp e una chat, tra un “ciao tesoro” ed un osservazione-pranzo- a-spremuta delle “amiche” della moda, tra la paura di innamorarsi e l’innamorarsi per finta di un po’ tutti, e della difficile gestione dell’amore effettivo, di una storia a distanza nata sui social network.

Mi sono raccontata con un velo d’imbarazzo, perché se da un parte sono la persona più egocentrica del mondo, quando non recito il personaggio che mi sono costruita, e decido di distruggere quella maschera di mattoni e cemento, divento praticamente una rincoglionita.
Dopo aver pezzato notevolmente (grazie a dio avevo la giacca), siamo tutte saltate in sella e ci siamo spostate pedalando verso la seconda tappa de tour, da MV% Ceramics Design, una chicca colorata, un gavettone di allegria nell’Alto Naviglio.
Lì ci ha aspettato Maria Vera Chiari, un misto tra fatina turchina, Minù, e la Strega buona di Fantaghirò, che ha deciso di dedicare la sua vita a creare. Lei crea davvero cose bellissime, personali, “arcobaleniche”, con dentro pezzettini di cuore. È abbastanza ovvio che quando tu entri nel suo laboratorio ti venga da spalancare occhi e bocca ed esclamare prima: “Ohhhhh”, e poi: “No vabè”, per poi affermare fiera che sì, esistono davvero posti speciali con persone speciali.
Maria Vera ha provato a farmi dipingere un cuore, ed io mi sono aggiudicata il ruolo di peggiore tra tutte. Diciamo che su un cuore di ceramica c’ho messo venti litri di colore. No buono.
E dopo aver trovato la cucina dei miei sogni, ovvero una una di quelle anni Sessanta, dai colori pastello, magari agghindata con ceramiche attaccate un po’ ovunque, ci siamo spostate da Ciclo Sfuso, la terza tappa del tour #shewears, per conoscere un gruppo di donne, ideatrici del progetto Voglio Una ruota, un documentario che racconta come la bici abbia cambiato la vita di certe donne attraverso le loro storie. Per ovvi motivi (il mio spassionato amore per la bici), ma anche per la bellezza di immagini e contenuti, vi consiglio di vedere, tanto per cominciare, il teaser del video.

Il tour #shewears si è concluso da Tizzy’s con la mostra di una ragazza che si tocca i capelli come me, tanto timida, quanto “iconograficamente sfacciata”, ovvero della fotografa Meschina, che tempo fa cominciò a fotografare culi, o comunque “roba” sotto le gonne. Ha cominciato per gelosia, forse un po’ per vendetta: “ah sì? quella piace al ragazzo che piace a me? Vediamo un po’ com’è sotto!” E via di cellulite. E poi da lì il racconto di serate in discoteca dal punto di vista “lato b”. Personalmente trovo Meschina geniale, oltre che un’ottima persona e fotografa, con uno stile ben preciso.
Sulle note di Barbarella, io e la cumpa abbiamo poi cenato nel ristorante di Tizzy Beck, altra donna  con qualcosa da raccontare: “potete fare tutto, quindi fatelo”.
Come darle torto.

Sono tornata a casa a mezzanotte e mezza, in una Milano che pareva una Macina burrosa inzuppata nel latte caldo, dopo 45 minuti di bicicletta, riflettendo per tutto il tragitto sulla bellezza del concetto di sociale: in cinque ore ho conosciuto persone apparentemente appartenenti a mondi diversi, delle monadi, che eppure si sono incontrate, e che alla fine, hanno pure dei punti in comune, che partono tutti da un macro e generalizzato incrocio: una storia.

Avevo il cuore che piangeva miele di castagno, che è anche il mio preferito.

Foto: Meschina

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Maria Vera Chiari

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Antonella Bianco

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Barbarella

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Tizzy Beck

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