Porto da un calcio al chirurgo e un altro al botox

Porto da un calcio al chirurgo e un altro al botox

I presupposti ce li ha davvero tutti, non gne ne, attenzione alla ripetizione, manca manco mezzo: è nostalgica, certe volte è abbandonata a se stessa, è colorata, e splendidamente vecchia e polverosa, anche nel suo essere hipster. Porto potrebbe essere la mia città, se solo decidessi di volere avere una città del cuore, ma ho invece deciso che io nel cuore devo avere tutte le città del mondo, assieme a quella in cui vivo. Ma magari chissà, un giorno porrò fine a questo mio continuo “innamoramento urbano, bucolico e marino”, e pure di credere nel fattore “segni particolari”: Madrid è bella per le insegne, Parigi per lo stesso motivo per cui la odio, per il suo essere riconosciutamente snob, Firenze è bella perché è Toscana, e ne deriverebbero un monte di aggettivi, e così via. Non c’è città che non mi piaccia.

Idem Porto. È davvero bella. Anzi è bello, perché se fosse un umano sarebbe come l’uomo che (purtroppo) garba a me: alto, coi capelli lunghi a caso, la maglietta bianca sbrindellata e una tavola da surf sotto il braccio. E artista squattrinato, naturalmente.

Porto è bella nel suo rifiuto forzato d’avere accettato di farsi il botox, il lifting, la plastica, nel suo essere così com’è, nell’aver fatto come la Magnani, cioè nel suo volere invecchiare naturalmente e mandare a quel paese il chirurgo estetico. Porto è una città triste, che si lascia cadere a pezzi, la fottuta crisi, maledetta, ma è proprio questa tristezza, questa crisi, che l’ha resa bella, forte, affascinante, unica, e viva. È una città che va giù, ma non si butta giù, anzi, va sempre più su, che si crogiola nel suo blu smaltato degli azulejos (la stazione di São Bento è una delle non-so-quante meraviglie del mondo), nel suo essere splendidamente sbiadita, nel suo essere un cous cous con verdure e frutta secca, nella sua costante ed equilibrata diversità.

La sua forza sta nel paradosso: come può essere una città con case lasciate lì, essere definita splendida? Come può una colazione costare tutta (cappuccino, brioche, e spremuta) un euro, e un viaggio in metro un euro e cinquanta? Come può essere così calma e silenziosa con quel mare così incazzato? Perché ci sono decine di negozi per bimbi se è una città vecchia?
E poi il principale paradosso è che Porto piace a tutti, agli ottimisti e ai pessimisti, ai tipi moderni e a quelli nostalgici (per quest’ultimi, quindi anche per me, è un vero paradiso), ai ricchi e ai poveri, perché ha il famoso “che”.

Io ho soggiornato nel “top” dei paradossi: un castello che pareva davvero quello di Don Antonio, il Castelo de Santa Catarina, che sarà stato trash a vedersi, tra Madonne, cappelle e improbabili statue, ma sono stata da dio (per rimanere in tema religioso), e soprattutto aveva una gatta, Camilla, la gatta del Castello, che una sera ha pure lasciato la sua amata poltrona rossa per salire in camera per bere dal mio bidet. Ve lo consiglio (il castello, non il bidet).

Non è difficile indovinare perché a Porto sono impazzita: perché come a Madrid, ovunque ti giri, ci sono insegne con delle scritte meravigliose, caratteri ingialliti, colori accesi, stampatelli e corsivi, ogni insegna ti pare dire qualcosa di sé, o qualcosa e basta. E tra parentesi, le ho raccolte, e le raccoglierò tutte, oltre che qui, nel mio altro nuovo profilo Instagram, @thenostalgictraveller, dedicato esclusivamente alla mia passione per le cose vecchie, insegne che ho fotografato in giro per il mondo comprese.

Naturalmente Ribeira è il quartiere pittoresco per eccellenza, inevitabilmente sciupato da quel mucchio di bar e ristoranti fatti apposta per i turisti, ma d’altra parte basta attraversare il Ponte de D. Luìs I per entrare in una delle cantine sempre turistiche ma meno “urlate”, godersi un bicchiere di Porto per poi salire sulla funivia e catapultarsi in una sorta di Isola che non c’è, ovvero, un mondo parallelo sospeso in aria fatto di case fatiscenti ma abitate, bellissimi graffiti e scuole realmente frequentate; una sorta di povero paesino del Sud dove però sono tutti felici.
A Ribeira ho mangiato in un delizioso ristorante affacciato al fiume Douro, Bacalhau; ok, il nome non è molto fantasioso, dato che a Porto si pasteggia solo baccalà, ma il cibo era delizioso, e il personale gentilissimo.
Mi sono pure imbattuta in un negozio molto bello, solo per uomo, si chiama La Paz, fa cose che secondo me dovrebbero indossare tutti gli uomini. Dategli un’occhiata.

Causa “malattia da surf”, ho frequentato abbastanza il quartiere di Matosinhos, ovvero una lunga spiaggia con diverse scuole di surf (io sono finita alla Oporto Excentric), un lungomare che viste le condizioni meteo in cui sono incappata in quei giorni, pareva uscito da un libro dell’Ottocento in cui si scrive spesso il verbo “minacciare”, e una costellazione di bar e ristoranti in spiaggia sempre aperti e popolati.

Ho provato a pranzare all’Ondas do Mar, ma non è stata una buona idea, dato che il salmone che avevo ordinato era maionese con scaglie di salmone, ma non ho speso davvero nulla, e il personale è stato anche lì delizioso. Davanti c’è un bar che ti mette una strana pace: non ricordo il nome, ma la gente va lì a lavorare, a scrivere, a bersi un pessimo caffè, o solo a guardare il mare, è praticamente un rettangolo di vetro sulla spiaggia. La cosa negativa è che si fuma, cioè a Porto si può ancora fumare in tutti i locali, e per me questo è deletereo.
Deletereo perché per ben due volte di fila sono stata in un locale che sì, può apparire hipster, perché pieno di cose vecchie, ma sono cose vecchie a caso, da lampadine, interruttori, macchine giocattolo appese storte al muro, e così via, e mi sono dovuta sorbire fumo passivo, cosa che odio. Però il Museu d’Avò è un ristorante troppo figo: robe vintage a parte, si mangia come piace a me: formaggi, olive, piccole porzioni di cibo semplice che puoi ordinare in quantità (tanto spendi sempre poco). Lo consiglio vivamente. Consiglio anche Elebe, ma non per l’estetica, è quel moderno sbagliato con tanto di acquario, nemmeno per il pavimento (si scivola!), e poco anche per i prezzi, che rispetto alla media sono alti, ma si mangia come dio comanda.

Nella stessa via ci sarebbe un bellissimo locale dove andare a bere, Cafè Candelabro, se solo il barista (forse ho beccato quello sbagliato) fosse più gentile, infatti non ho bevuto niente: la prima sera perché era pieno, la seconda perché si sono dimenticati a casa la cortesia.

Conclusione: andateci.

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