Noi freelance: e ci chiamavano Trinità (o Shiva)

Noi freelance: e ci chiamavano Trinità (o Shiva)

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Siamo sempre qui a dire le stesse cose. Ci annoiamo facendolo, ma lo dobbiamo fare. E lo dobbiamo fare per spirito di solidarietà, per una sorta di convivio pietoso di idee e opinioni oggettive per taluni, ma così soggettive per altri che si trasformano in potere di dirigere dei giochi che sono solo sleali. Ma chissà perché, vince quasi sempre quello che è soggettivo, e mai quello che è oggettivamente giusto. Si chiama politica.

Sono Lucia Del Pasqua, ho 31 anni, e tempo fa decisi di fare la free-lance, un tempo si chiamava libera professione, ma ora pare si debba parlare solo in inglese.
Non avevo paura di non avere certezze, perché le certezze vengono se tu già lei hai, se tu sei consapevole dei tuoi “super poteri”, delle tue doti. E nella libera professione la dote principale deve essere quella di saper comunicare te stessa al meglio.
Un giorno guadagno 100, un altro giorno 0, un altro ancora 1000. Questo è quello che mi piaceva, e che mi piace ancora, la sfida continua, il combattere per un fine, il perenne mettersi in gioco, la ricerca (prima tu cerchi, poi gli altri cercano te), il non avere mai pace, in un certo senso. Positivamente si può chiamare “il sentirsi viva”.
Nel contempo, questo è quello che mi piace anche meno: il non avere mai pace, e il combattere zenza un fine, intendo.
Non esiste il “vado in ferie dal 1 agosto al 31 agosto”, o meglio esiste, ma sai che non potrai mai spegnere il telefono per un mese, che dovrai scrivere, rispondere alle mail, palesarti, perché “non si sa mai se arriva un lavoro, sai, sono free lance”.
Diamine, per una come me il lavoro da free lance pare la pacchia: non voglio un capo, voglio poter andare in piscina alle tre del pomeriggio, e potere essere libera di partire un martedì invece che un sabato.
Sarebbe tutto così bello se.
Se.
Se non dovessimo lottare per guadagnare sempre meno, e rimanere con la partita IVA ai minimi, perché se cominci a pigliare soldi addio, la metà te li sequestra lo Stato.
“Ti offro questo lavoro, 5000 euro va bene?”
“Non posso accettare, che sennò sforo i minimi, e poi son cazzi”.
Poi ci ripensi, e dici: “ma quasi quasi accetto, una soluzione si troverà no? Poi forse forse ci arrivo giusta giusta…”
E allora accetti, paghi le tasse sul pezzo di carta che hai fatturato, e poi che succede?
Questo: “Buonasera, sono Lucia Del Pasqua, 250 giorni fa vi avevo mandato una fattura di euro 5000, novità?”
Silenzio.
Ma come? Non erano gli stessi che ti avevano commissionato il lavoro il giorno prima della messa online? Con cui ti scambiavi 60 mail al giorno per dettagli del progetto (fatto da te alla fine, ovviamente), foto, approvazioni e beghe varie?
Adesso tutti morti.
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Allora ricominciamo: sono Lucia Del Pasqua, ho 31 anni e questo faccio: scrivo per magazine, siti, brand, ho scritto un libro, faccio la consulente digital, ho un blog, mi “diverto” a creare format video, ho imparato a fare foto, a montare i miei video, a usare alla meglio Photoshop, a fare la “poser”.
Mio papà faceva il veterinario, per dire. Un solo lavoro, pare incredibile, e manco dovette mandare il curriculum in giro.
Adesso non ti pigliano se non sai fare questo più quello, perché per una persona di ieri, oggi ce n’è una che fa le veci di quattro cristiani, o sennò devi pagare tu chi faccia quell’altra cosa lì, e allora, perché pagare quell’altro tanto quanto pagano a te il lavoro? Tanto vale impararlo. E ci chiamavano Trinità.

Tempi moderni: il lavoro ad oggi non è più gestibile. No che non lo è. Siamo troppo multitasking, troppo bravi, o lì a far finta di essere bravi a fare tutto, siamo troppo. Troppo impegnati a cercare un focus, che per cause di forza maggiore, prima o poi, si perde, perché siamo uomini, mica robot.
Che qualcuno osi chiamarci bamboccioni, che gli taglio le mani.
“Allora potrei assumere un assistente?”
“Hai la partita IVA ai minimi, assumi qualcuno e quanto paghi di tasse? Poi c’è da pagare commercialista, hai già dei costi fissi per chi collabora con te, e variabili per fotografi, videomaker e così via…”
“Hai ragione, faccio da sola”.
Quando ero a scuola ci si lamentava che si studiava e basta, quando sono cresciuta mi lamento di lavorare e basta, e con “lavoro” non intendo solo la caterva di cose elencate sopra ma anche le seguenti: è lavoro chiedere tutti i giorni i soldi che ti spettano ad aziende che non ti pagano, è lavoro preoccuparsi di cercare altri lavori, è lavoro preoccuparsi di cercare altri lavori che non sai mai se ti verranno pagati. A 80 anni saremo delle super eroine del lavoro.
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All’inizio mi facevano credere di essere una stronza, io a chiedere, elemosinare i soldi che mi spettavano, poi le cose sono andate diversamente: quei soldi mi spettano, e tu, brutto testa di cazzo, me li devi dare. Poco importa se è caduto un uccello sul camino della stanza dell’amministrazione e la cenere è entrata nei cervelli ostruendo la capacità individuale di emettere pagamenti. #fottesega proprio se adesso non ci sono soldi perché il cliente non ti ha pagato, perché A. Non è vero B. Io voglio i soldi che tu mi hai promesso. Semplice.
Io dico sempre questo: che domani vado all’Esselunga e dico alla cassiera che passerò tra quattro mesi a pagare. Come minimo prima mi picchiano, poi mi sbattono fuori a calci in culo. E farebbero bene.

Chiedi pagamenti anticipati e ti ridono in faccia. E ancora che provano a farti sentire una cretina.
Siamo bionde, ma non deficienti. Anzi, grazie a della “brava gente” come voi, capiamo che dobbiamo essere sempre più stronze e inflessibili.
Nel frattempo facciamo ricchi gli avvocati, facendo fioccare dal cielo lettere su lettere di reclami.
Io bercio in continuazione, twitto perfino a Renzi, ma accade poi come quando segnalo a Facebook il profilo di quel viscido pervertito di Andrea Dipré: da una parte parlo coi muri, dall’altro Diprè è un santo, che c’ha pure l’aureola.
E ancora una volta vince la soggettività.

Ogni tanto mi sento patetica, noiosa, a dire sempre le stesse cose, a lamentarmi, ma poi ci penso bene e mi dico che io combatto per i miei diritti: il diritto d’essere pagata, il diritto di essere messa nelle condizioni di lavorare senza ansia e fretta, almeno ogni tanto.
E a quelli che stanno pensando “ma questa mica sta salvando vite”, rispondo che no, non salvo vite, non faccio, che ne so, il dottore, e non penso che il mondo sia fatto solo di dottori, brava gente, penso che ognuno nella vita si sia scelto la propria missione, e la mia è quella di far divertire, anche se non è una cosa intellettualmente impegnativa. No perché qui pare che se non fai cose intellettualmente impegnate tu sia una sfigata, disse la generazione di Uomini e Donne.

La cosa peggiore è che non c’è mia amica che non se ne voglia andare via da Milano. Siamo arrivati ad un punto di saturazione e intolleranza tale che ci fa dire: “Ma sai che c’è? Ma me ne vado fuori dai coglioni, magari in un posticino in riva al mare, o in campagna”.
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Pensiero che fino a due anni fa mi dava sui nervi perché rappresentava il luogo comune, quello di aprire un baretto alle Maldive.
E invece adesso ci penso anche io: a vivere una vita “in parallelo”, tra Milano e un posto con delle onde. Perché se uno sta qui una vita, quella vita se la distrugge, se la logora, se la consuma, perché rincorrere il rispetto è logorante e anche umiliante.
Poi uno si stupisce se torna al paesello e sono tutti sposati e figliati (felici o infelici che siano) tranne te. Tu, gli altri, non abbiamo manco tempo per certe cose. Qui si vive per lavorare, si vive per chiedere soldi per i lavori che hai fatto, per domandarsi: “chissà se quello pagherà?”, per fare liste sull’agenda “ricordati di chiedere i tuoi soldi”, che sennò loro non ti pagheranno mai.

Ma no, io al posto fisso non ci torno, non avrò mai una tredicesima, una quattordicesima, lo so, ma per ora ho ancora (poche) energie per combattere.
Chissà se accadrà come con Zara e H&M: che dopo il loro boom ci siamo tutte stufate e sogniamo la merceria sotto casa, il salumaio vicino e la ferramenta, con il cui omino ti ci fermeresti pure a parlare mezz’ora, oziando nella seggiolina vicino al bancone, messa apposta per la chiacchiera. Chissà se si arriverà ad un punto così estremo, professionalmente parlando, che qualcuno da “lassù” prima o poi si deciderà ad aprire gli occhi e a concedere la grazia. Sennò tocca davvero fare la rivoluzione. E allora io sarei quella biondina, se non cambio colore prima, in prima fila.
La giustizia non è relativa, non deve esserlo.

E ora, voi che dovete pagare me e altri miei colleghi, voi che adesso siete a godervela a Cortina, e che a Natale andrete pure in Messico, mettetevi una mano prima sulla coscienza e poi sul portafogli. Grazie (al cazzo).
Per tutti gli altri che pagano puntuali: a voi sì che auguro un Buon Natale.

Comments are closed.
  1. Elisa

    24 December 2015 at 13:55

    Ho letto tutto e mi sono ritrovata in tutto. Brava gente.
    Sì sì